Con questo post diamo inizio ad una serie di brevi riflessioni sul funzionamento della tecnica pianistica, al fine di ottenere un più efficace e consapevole controllo del suono e dell’espressione musicale. Osserveremo come i principi della fisica (inerzia, gravità, principi delle leve e della dinamica) siano facilmente applicabili alla meccanica pianistica e all'uso del nostro corpo per suonare più efficacemente il pianoforte.
L'EMISSIONE DEL SUONO AL PIANOFORTE: DALL'IDEA AL TASTO
Prima di addentrarci nell’analisi degli strumenti tecnici con cui gestire la produzione del suono, è fondamentale avere in mente una chiara idea del timbro che vogliamo produrre. È utile, quindi, pensare ad ogni suono o gruppo melodico come uno o una serie di vettori: di ciascuno dobbiamo avere ben chiari il suo verso, l’orientamento e la velocità.
L'idea del suono deve, in pratica, comprendere una precisa gradazione dinamica (ppp, o mp, etc) e una direzione, che determina un rapporto chiaro tra il suono stesso con quello che lo precede e con quello che segue. Dal rapporto tra più suoni scaturisce il significato musicale. Ogni suono che viene emesso dal pianoforte, infatti, deve portare con sé un messaggio. Il messaggio è sempre caratterizzato da una direzione, ossia da un movimento che segue una determinata linea retta o curva, ad una determinata velocità, e con una ideale meta. Possiamo immaginare suoni che vanno in alto, altri che cadono verso il basso, altri che rimangono sospesi a mezz'aria. Si tratta, naturalmente, di suggestioni mentali, che però danno vita a suoni con caratteristiche timbriche diverse.
Una volta che abbiamo chiare le suddette caratteristiche per ciascun suono che stiamo per eseguire, sapremo trovare il gesto che corrisponda a quel determinato suono: la direzione che noi immaginiamo, infatti, produrrà un gesto conseguente. Se immaginiamo un suono che sale verso l'alto, sarà istintivo compiere un movimento elastico dell'avambraccio e del polso, come se il suono fuoriuscisse dalla tastiera per “evaporare” in su, attaccando il tasto morbidamente, essendo già a contatto con esso con il polpastrello del dito (non con la punta del dito), e rilasciandolo gradualmente. Viceversa, se immaginiamo un suono che “sprofonda”, verrà naturale un gesto verticale verso il basso, con progressivo scaricamento del peso del braccio, e con un movimento del dito che procede verso l'interno del tasto.
Abbiamo così esemplificato due dei tipi di suono (comunemente si direbbe due “tipi di tocco”): il suono “in su” e quello “in giù”, diversi e complementari, che io personalmente considero la base della tecnica pianistica. In entrambi i casi, il dito non agisce per sé, ma sempre come ultimo anello di una catena di leve e di movimenti che partono dal busto del pianista, passando per tutti gli snodi che possiamo utilizzare: spalla, gomito, polso, e le tre falangi. Tutte le leve coinvolte (braccio, avambraccio, mano, e le tre falangi di ogni dito) sono attive e solidali, nel senso che partecipano al movimento con i rispettivi muscoli, i quali sono in lieve tensione per non lasciare che alcuna leva sia cedevole. Ciò non comporta necessariamente che tutte le falangi debbano essere in movimento durante la produzione del suono, ma devono mantenere una tensione così da trasmettere l'energia cinetica impressa dal braccio fino al martello che colpisce la corda.
LE LEVE E IL CONTROLLO DINAMICO
La meccanica pianistica è un sistema di leve complesso. È, quindi, utile osservare come le leggi della fisica determinino il funzionamento della meccanica, e, di conseguenza, la nostra interazione con essa.
Quando abbassiamo un tasto noi diventiamo parte della meccanica pianistica. Il punto di arrivo del nostro gesto, tuttavia, non è il fondo corsa del tasto, ma la corda. Idealmente, quindi, il nostro dito sta imprimendo il “nostro” suono non al tasto, ma alle corde stesse, per il tramite del sistema di leve che ad esse trasmette il movimento tramite il tasto e il martello. Ecco perché, diventando il nostro dito parte di quel sistema, è utile che esso sia il più possibile solidale con le altre leve, e, quindi senza alcun “gioco” che possa causare dispersioni di energia. Per questo motivo, in generale, ritengo utile mantenere una buona aderenza tra il dito e il tasto, lavorando con estrema cura al raggiungimento di una ottimale economia dei movimenti. Del resto, guardando i grandi pianisti, salta all'occhio come quasi tutti tendano ad essere con le dita già sul tasto prima di premere il tasto. Anche i pianisti che apparentemente distaccano la mano dalla tastiera, fanno questo in realtà dopo l'emissione del suono, o per preparare il movimento del dito, ma raggiungendo il contatto col tasto un attimo prima di abbassarlo.
Le leve della meccanica pianistica sono apparentemente immutabili, in quanto non possiamo spostare i fulcri delle leve, anche se possiamo intervenire su alcuni dei loro parametri, come la lunghezza del tasto da noi utilizzato (variando il punto in cui lo suoniamo e l’angolo di attacco) e la corsa del tasto (e, conseguentemente, del martello), se premiamo il tasto partendo da una posizione di parziale abbassamento.
Bisogna considerare che più le leve sono vantaggiose, più è per noi agevole controllare il movimento e, di conseguenza, dosare la dinamica e acquisire un adeguato volume di suono.
Una leva è vantaggiosa se la forza applicata richiesta è minore della forza resistente, ovvero se il braccio-resistenza è più corto del braccio-potenza. La leva con cui le nostre dita interagiscono è, ovviamente, il tasto, che costituisce la prima leva (e la più lunga) della meccanica pianistica. La lunghezza dell’intero tasto è molto maggiore della sola parte visibile sulla tastiera.
Dunque, per far sì che il nostro approccio con il tasto sia vantaggioso, è utile usare una leva lunga, possibilmente più lunga della parte del tasto che arriva fino al fulcro (il braccio-potenza della leva del tasto). Se ci limitiamo ad abbassare il tasto con il solo movimento del dito, useremo una leva molto più corta.
Per un controllo più agevole e per la produzione di un suono pieno e ben risonante, è quindi importante l’uso di leve lunghe, con un rapporto velocità-peso tale da usare una bassa velocità di abbassamento del tasto e un peso consistente.
Ciò vale non solo per le sonorità in forte, bensì anche per il pianissimo. Infatti anche gli spostamenti infinitesimali si controllano con maggiore precisione se si usano leve lunghe e con poca escursione. Per rendersi conto di questo, basta provare a spostare una matita di un millimetro a sinistra, usando prima il movimento del solo dito, e poi quello dell’intero braccio, come un’unica leva. Noteremo che spostando la matita con il braccio guadagniamo in controllo e precisione del movimento.
GESTIRE GLI SNODI
Proseguiamo l’osservazione dei principi delle leve applicati alla tecnica pianistica. Nel precedente post abbiamo parlato delle leve semplici, e di come l’uso delle nostre leve lunghe (l’intero braccio anziché il solo dito) agevoli sia il controllo, sia la potenza del suono. Naturalmente, le combinazioni di leve che possiamo gestire sono molteplici e non è possibile schematizzarle con precisione.
Ogni articolazione del nostro braccio, dalla spalla alla terza falange di ogni dito, costituisce, infatti, uno snodo, di cui possiamo gestire la flessibilità e il movimento.
Se blocchiamo il movimento di tutti i nostri “snodi”, useremo una leva rigida, trasmettendo il movimento del braccio in modo diretto dalla spalla al tasto.
Viceversa, se lasciamo libere una o più articolazioni (gomito, polso e le tre falangi), applicheremo una serie di varianti alla nostra leva, rendendo la trasmissione del movimento, e, di conseguenza del suono, più indiretta. La accurata e consapevole apertura e chiusura degli snodi, come fossero gli scambi di un sistema ferroviario, ci consente, quindi, di diversificare l’emissione del suono in base alle nostre esigenze espressive e poetiche.
Un suono “diretto”, ossia ottenuto con una leva rigida e lunga, avrà una messa a fuoco maggiore, mentre un suono “indiretto”, ottenuto con una flessione controllata di uno o più snodi, creerà delle maggiori ombreggiature di colore. Con questa tecnica potremo quindi gestire la “messa a fuoco del suono”. Nell’esecuzione di più voci contemporaneamente, ad esempio, potremo decidere di dare risalto alla melodia principale, eseguendola con una leva lunga a tesa (snodi bloccati), e contemporaneamente potremo dare un contorno più sfocato alle parti interne di accompagnamento, sbloccando gli snodi delle tre falangi delle rispettive dita, con l’effetto di una maggiore distanza (o “profondità di campo”) tra il soggetto principale e lo sfondo.
Un altro aspetto collegato alla gestione delle nostre leve è quello dell’angolo di attacco. Usando lo stesso tipo di leva (e gli stessi “snodi”) possiamo compiere un movimento più o meno perpendicolare rispetto al tasto. Ciò anche influisce sul risultato sonoro, rendendo l’attacco del tasto più diretto (se è perpendicolare) o meno diretto (se è più obliquo e radente al tasto). Infatti un attacco perpendicolare trasferisce il movimento al martello in modo diretto, provocando una rapida accelerazione del moto del martello verso la corda. Viceversa, un attacco “spalmato” in orizzontale produrrà una minore accelerazione del martello, con un suono più morbido e profondo, ma meno brillante.
In base alle nostre esigenze espressive, possiamo quindi scegliere l’attacco più adeguato. Ad esempio, una melodia cantabile, anche se in forte, suonerà meglio se eseguita con un attacco radente e con leve lunghe e tese. Viceversa, un accordo secco e incisivo richiederà un attacco più diretto e rapido.
Si potrebbe proseguire oltre nell’analisi delle varie combinazioni di attacchi e leve, ma preferisco fermarmi qui, e invitare tutti i lettori a sperimentare essi stessi alla tastiera le differenze di colore derivate dai loro diversi attacchi del tasto. Solo scoprendo personalmente il funzionamento di queste infinite combinazioni sarà possibile costruirsi la propria tavoletta timbrica. E i colori scoperti direttamente saranno quelli che sapremo usare con maggiore consapevolezza e gratificazione.
I PENNELLI DEL PIANISTA
A proposito del timbro pianistico, è utile pensare che le nostre dita possano prendere la forma di tanti pennelli diversi. Così come un pittore sceglie il pennello più adeguato al tratto che intende dipingere, allo stesso modo il pianista può gestire il tocco decidendo con quale parte del dito suonare ciascun tasto. Tra le caratteristiche che determinano il tratto di un pennello vi sono lo spessore, la lunghezza, la flessibilità e la densità delle setole. Per analogia, i pianisti possono scegliere tra una vasta gradazione di simili parametri, in base a come usano ciascun dito.
1. La superficie di appoggio del dito sul tasto (lo spessore delle setole): più la superficie è ampia (ad esempio, se suoniamo con il pollice, o con un altro dito in posizione piatta), più il suono sarà pastoso, come un pennello a setole spesse e spaziate, ma meno incisivo rispetto a quello ottenuto suonando con una superficie minore.
2. La lunghezza della leva con cui suoniamo: come già spiegato nell’articolo “le leve e il controllo dinamico”, possiamo scegliere la lunghezza della leva con cui azioniamo il tasto: se il movimento del dito parte solo dalla nocca, avremo una leva corta, come un pennello a setole corte, adatto a suoni corti e staccati. Se invece nel movimento coinvolgiamo anche la mano, l’avambraccio e il braccio avremo una leva più lunga, con una maggiore tensione del suono stesso: adatto, ad esempio, alle lunghe arcate melodiche.
3. La flessibilità e l’angolo dell’attacco del tasto: possiamo scegliere di mantenere il dito estremamente rigido (come un pennello a setole dure), per avere un suono incisivo e ben focalizzato, Se invece cercassimo un timbro più sfumato, sarà efficace una leva più elastica, ottenuta con il parziale allentamento degli snodi delle falangi, come spiegato nel precedente articolo “gestire gli snodi”.
4. La “densità” del suono, direttamente proporzionale alla “peso specifico” del dito con cui azioniamo il tasto: questo parametro è facilmente gestibile graduando il peso del braccio che indirizziamo sul dito, in rapporto anche con l’angolo di attacco e con la superficie utilizzata.
Il suono sarà più denso se usiamo tutto il peso del braccio, concentrato su un dito con una superficie di attacco piccola, usando una leva lunga e di elevata rigidità, per evitare dispersioni di peso. Viceversa, un suono più arioso, analogo al tratto di un pennello a setole rade, è ottenibile usando poco peso (ad esempio, il solo peso del dito), e distribuendo il peso su una superficie di attacco più ampia (con il dito disteso).
Come ogni grande pittore, dunque, anche i pianisti devono essere maestri nell’uso dei colori e dei “pennelli”. Una dotazione di “pennelli” ricca e ben assortita costituisce un elemento essenziale della tecnica pianistica.
PESIAMO IL PESO
Uno dei principi basilari e universali della tecnica pianistica è l’uso del “peso naturale” del braccio. Tuttavia, l’argomento è complesso e si presta a molti fraintendimenti. Molti studenti di pianoforte fanno fatica a capire esattamente di cosa si tratti, e come si possa realmente trasferire il peso del braccio sul tasto: spesso pensano che stanno suonando col peso, ma così non è.
Per percepire quale sia il “peso naturale” del nostro braccio, la prima cosa da fare è...pesarlo. Prendiamo quindi una bilancia digitale da cucina, con piattaforma piatta e estesa, e la poggiamo su un tavolo di altezza analoga a quella della tastiera del pianoforte. La bilancia ci servirà per i seguenti esercizi, e ci aiuterà ad acquisire una maggiore consapevolezza sull’uso effettivo del peso, e sul controllo muscolare indispensabile per la nostra tecnica pianistica. Gli esercizi sono da svolgersi in ordine, e solo quando saremo certi di aver ben compreso e realizzato un esercizio potremo passare al successivo.
1. Pugno chiuso.
Seduti al nostro tavolo, poggiamo il nostro braccio, con pugno chiuso, sulla bilancia, senza fare alcuna pressione volontaria e senza irrigidire alcun muscolo dalla spalla in giù, così da non trattenere il peso (vedi foto). Può essere utile, per accertarci che siamo realmente rilassati, far leggermente “ciondolare” il gomito e apprezzare il senso di appoggio rilassato. Se siamo realmente appoggiati con il peso del braccio sulla bilancia, il display indicherà circa 1.500 g. Quando il braccio è appoggiato con il pugno chiuso è molto facile scaricare il peso sulla bilancia, perché le articolazioni della mano (il polso e le tre falangi) non sono coinvolte, e quindi vi sono meno rischi di dispersione del peso. Gli unici muscoli che potrebbero interferire sono quelli della spalla e del braccio, che vanno tenuti del tutto rilassati. Qualora il display indicasse un peso nettamente inferiore, evidentemente siamo irrigidendo inconsapevolmente i muscoli della spalla o del braccio.
2. Pollice
Una volta che siamo riusciti a svolgere il primo esercizio, passiamo a coinvolgere gradualmente le dita. Partiamo dal pollice, che è quello più forte, e quindi facilmente in grado di sostenere il peso del braccio. Ripetiamo quindi l’esercizio 1, ma poggiando il braccio sulla bilancia sul solo pollice in posizione “rovesciata, cioè girando il gomito verso l’alto (vedi foto 2). Il peso indicato dal display dovrebbe, ovviamente, restare lo stesso, o al limite aumentare, in quanto stiamo ora riversando sul dito anche il peso della spalla, avendo il gomito in posizione più alta. Se invece il peso indicato sarà inferiore, vuol dire che lo stiamo trattenendo in qualche snodo del braccio. Questo esercizio è agevole, in quanto la linea dalla spalla al pollice forma un arco solidale con la forma delle articolazioni, assumendo una posizione più naturale rispetto a quella in cui normalmente la mano deve stare sulla tastiera. Rispetto al precedente esercizio stiamo coinvolgendo solo una articolazione un più: quella del polso, i cui muscoli devono ora essere attivi. I muscoli delle dita, invece, compresi quelli del pollice, devono restare rilassati.
3. Quattro dita
Poggiamo il braccio sulla bilancia con la mano in normale posizione “pianistica”, quindi toccando la bilancia con le punte di indice, medio, anulare e mignolo, come a suonare i tasti re-mi-fa-sol. È importante che le quattro dita mantengano una forma dritta (non curva), così sarà più facile per i muscoli delle tre falangi restare ben tesi e sostenere il peso del braccio. Anche il polso deve essere attivo, mantenendo una linea retta tra avambraccio e mano, così da trasmettere il peso del braccio alle dita senza dispersioni. Il pollice, invece, deve sempre restare completamente rilassato, così come anche i muscoli della spalla e del gomito. Se la bilancia indicherà un peso inferiore a quello precedente, dovremo provare a controllare il rilassamento di ciascun muscolo.
Molti studenti inizialmente non riescono a gestire i muscoli delle dita in modo indipendente dagli altri, anche a causa della posizione meno naturale della precedente. Succede spesso che, per mettere in tensione i muscoli del dito che suona (che deve sostenere il peso), si irrigidiscano anche i muscoli di altre dita o del braccio, e in tal modo il peso non si scarichi del tutto sul tasto. La verifica con la bilancia è quindi molto efficace per individuare questi irrigidimenti e rendersi conto di quando siamo, invece, del tutto rilassati. Possiamo ripetere l’esercizio appoggiando sulla bilancia soltanto tre dita (2-3-4, o 3-4-5) e poi soltanto due dita (2-3, 3-4, 4-5). È importante che le dita non appoggiate mantengano uno stato di totale rilassamento. Può capitare di alzare involontariamente il mignolo o l’anulare, e in tal caso dobbiamo abituarci a mantenere una costante attenzione sullo stato dei muscoli di ciascun dito.
4. Dito singolo dritto
Quando siamo certi di effettuare correttamente il precedente esercizio, possiamo passare all’appoggio del peso su ciascun singolo dito, ma sempre in posizione dritta (non rotonda) per non sovraccaricare i muscoli flessori della falangina e della falangetta. Partiamo dall’indice, facendo attenzione a tenere ben tesi i muscoli delle falangi dell’indice e il muscolo del polso, e a lasciare rilassati tutti i muscoli delle altre dita. Ripetiamo l’esercizio riappoggiando il braccio sulla bilancia attraverso il medio, l’anulare e l’indice. La difficoltà sarà maggiore sulle dita più deboli, ossia l’anulare e il mignolo, i cui muscoli flessori sono meno abituati a sostenere da soli il peso del braccio (circa 1,5 Kg). È sufficiente restare appoggiati con il peso su un singolo dito per 3-4 secondi. In ogni caso, non superare i 10 secondi di appoggio continuo, per non affaticare eccessivamente il muscolo.
5. Dito singolo curvo
Solo quando siamo in grado di svolgere al meglio gli esercizi precedenti, possiamo passare a ripetere l’esercizio 4, ma con ciascun dito in posizione rotonda. In tal caso, i muscoli flessori di ciascuna falange del dito appoggiato saranno coinvolti e dovranno essere attivi e solidali per non disperdere la trasmissione del peso sul tasto. Il display della bilancia ci potrà confermare il corretto svolgimento, quando indicherà lo stesso peso che indicava negli esercizi precedenti.
6. Trasferimento del peso tra le dita
Il trasferimento del peso tra le dita, senza alcuna dispersione o interruzione della pressione, è un principio fondamentale per il legato e per un suono corposo e rotondo. Per verificare la nostra abilità nell’applicare questa tecnica, potremo appoggiare l’indice sulla bilancia, in modo che sostenga il peso del braccio, e poi gradualmente appoggiare anche il medio, così da dividere il peso tra le due dita. A questo punto, verificando che la bilancia non indichi sensibili sbalzi di peso, alziamo leggermente l’indice, così da convogliare tutto il peso del braccio sul medio. Possiamo proseguire allo stesso modo trasferendo il peso dal medio all’anulare e dall’anulare al mignolo, e poi tornare indietro fino all’indice.
Questi esercizi sono certamente insoliti rispetto ai sistemi più tradizionali per insegnare l’uso del peso al pianoforte. La loro particolarità sta nel fatto che è qui volutamente evitato l’abbinamento del peso allo scatto del dito o alla caduta dall’alto, per aiutare lo studente a percepire fisicamente e mentalmente cosa vuol dire “suonare con il peso”. Una volta acquisita questa consapevolezza, sarà poi più facile abbinare il peso ad altri modi di attacco del tasto, anche in combinazione con altri movimenti del dito o del braccio, che affronteremo negli articoli successivi.
STUDIARE CON LO SPINNER
Il fidget spinner, ormai chiamato semplicemente spinner, è un giocattolo oggi di gran moda tra i giovanissimi: si tratta di una sorta di trottola, con un asse di rotazione centrale intorno al quale ruotano alcune pale, grazie alla presenza di semplice meccanismo di cuscinetti. Spesso condannato dagli insegnanti perché distrae gli allievi, lo spinner può essere però molto utile agli studenti di pianoforte per sviluppare varie abilità tecniche: l’indipendenza muscolare delle dita, la sensibilità tattile del polpastrello, lo scatto dei muscoli flessori delle falangi e la tecnica delle doppie note.
Qui suggeriamo quattro semplici esercizi pianistici, per ritagliarsi qualche proficuo minuto di pratica anche nei momenti in cui si è in viaggio e non si dispone di un pianoforte. Per questi esercizi si consiglia di usare lo spinner di forma tradizionale, ossia quello con tre pale che girano attorno all’asse centrale (come quello illustrato nella foto). Tutti gli esercizi si intendono a mani separate. Gli esercizi 3 e 4, una volta che si è in grado di eseguirli in scioltezza, si possono ripetere anche con le due mani contemporaneamente, in tal caso usando uno spinner per ciascuna mano.
Esercizio 1, per sviluppare lo scatto “prensile” dell’ultima falange, utile nell’esecuzione di passaggi in staccato e per ottenere un suono sgranato anche in scale o arpeggi rapidissimi. Impugnare lo spinner con la mano sinistra, tenendo il centro dello spinner in posizione verticale tra pollice e indice. Con l’indice della mano destra imprimere un impulso rapidissimo su uno degli incavi tra le tre pale, in modo da compiere un rapido movimento in dentro con l’ultima falange dell’indice, così che lo spinner ruoti rapidamente in senso orario. Lasciare ruotare lo spinner e fermarlo con lo dopo almeno 5 secondi, osservando come la velocità e la durata della rotazione dello spinner possa variare in base alla forza impressa dall’impulso. Ripetere l’esercizio per almeno 10 volte, anche alternando le altre dita della mano destra, tranne il pollice. È molto importante che tutte le dita, tranne le due della mano sinistra che tengono lo spinner, siano sempre rilassate. L’esercizio si può ripetere invertendo le mani.
Esercizio 2, per il controllo del pianissimo: ripetere l’esercizio 1, ma effettuando con l’indice un movimento all’indentro lento e misurato, di circa tre o quattro millimetri, corrispondenti alla corsa minima del tasto necessaria per ottenere un pianissimo, senza quindi innescare il movimento rotatorio. Anche questo esercizio è ripetibile con le altre dita (medio, anulare e migliolo).
Esercizio 3, per migliorare l’indipendenza muscolare nei passaggi a doppie note. Poggiare lo spinner su un tavolo di altezza simile a quella della tastiera del pianoforte. Stando seduti su una sedia o panchetto di altezza simile a quello del pianoforte, poggiare l’indice sul centro dello spinner, appoggiandovi il peso dell’intero braccio. Lasciando il peso costantemente appoggiato sull’indice, dare rapidi impulsi con il medio sulla superficie di una delle pale, in modo da spingere la pala a ruotare rapidamente in senso orario. Ripetere più volte, ma separando ogni impulso con pause di almeno 5 secondi. L’esercizio, qui descritto con diteggiatura 2-3, si può ripetere con le diteggiature 3-4, 4-5, 5-4, 4-3, 3-2 (il primo numero indica il dito poggiato con il peso sul centro dello spinner, il secondo numero indica il dito che dà l’impulso). L’esercizio può anche essere eseguito senza il peso, e in tal caso il dito sul centro lo spinner eserciterà la sola pressione dovuta al peso della mano, mentre il peso del braccio sarà trattenuto in sospensione sull’avambraccio. Prestare molta attenzione al rilassamento delle dita non coinvolte dell’esercizio: esse devono sempre mantenere una posizione di riposo, evitando involontari movimenti.
Esercizio 4, per il controllo del pianissimo nelle doppie note. Poggiare l’indice al centro dello spinner, come nell’esercizio 3, e spostare una pala molto lentamente in senso antiorario, sfiorandone la superficie con il medio, imprimendo un movimento rotatorio lento e regolare, da alimentare sfiorando nuovamente ciascuna pala al passaggio sotto il dito, così da mantenere la regolarità della rotazione dello spinner. L’esercizio si può anche effettuare diradando gli impulsi “di rinforzo” ogni due o tre passaggi delle pale sotto il dito.
PRINCIPIO DI INERZIA
"Un corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di esso" (primo principio della dinamica, o “principio d’inerzia”).
Nel gestire le tensioni musicali siamo di continuo messi di fronte all’applicazione di forze e leggi naturali, delle quali però spesso ignoriamo la presenza e il funzionamento. Una delle più evidenti è la forza d’inerzia, che si manifesta in molteplici aspetti, sia puramente musicali, sia in rapporto con l’emissione del suono tramite lo strumento (il pianoforte nel nostro caso).
L’inerzia è la tendenza naturale dei corpi a mantenere lo stato di quiete o di moto in cui già si trovano. Esse cambiano stato (rallentano, accelerano) in seguito all’azione di elementi esterni (attriti o altre forze).
Poiché nel moto rettilineo uniforme la velocità è vettorialmente costante (in modulo, direzione e verso), ogni variazione di velocità e di direzione avviene con l’azione di forze esterne.
In musica, dunque, il principio di inerzia può essere sperimentato sotto due diversi aspetti: nella direzione e verso di un moto melodico (1) e nella sua velocità (2).
1. Inerzia nella direzione: si intende qui la tendenza a percepire il moto uniforme e una linea melodica a cambiare direzione o verso. Ad esempio, in una scala ascendente per moto retto che cambia la direzione o che inverte il verso tornando indietro, sarà naturale percepire una spinta centrifuga, dovuta alla forza d’inerzia, sulla nota di volta, esattamente come accade quando, guidando un’auto, affrontiamo una curva e ci sentiamo spinti verso l’esterno della curva.
In realtà la spinta centrifuga non è altro che una conseguenza del principio di inerzia: poiché un corpo tende a mantenere il suo moto rettilineo costante, sia nella velocità che nella direzione, ogni alterazione del moto rettilineo è percepito come una tendenza a mantenerlo: anche in musica.
Nel fraseggio, dunque, possiamo far tesoro di questa percezione per enfatizzarla attraverso la dinamica o l’agogica: se aumenteremo la dinamica sulla nota di volta e su quelle adiacenti (prima e dopo di essa), anche l’ascoltatore percepirà la “spinta centrifuga” all’interno della curva melodica. Anche con l’agogica possiamo enfatizzare la maggiore tensione data dalla spinta centrifuga sulle note di volta, allargandole leggermente. Claudio Arrau, tra i pianisti, era maestro nell’applicazione naturale e organica di questo principio.
2. Inerzia nella velocità: il nostro orecchio ha la tendenza a percepire (e, quindi a suonare) un determinato passaggio con la medesima velocità, anche in presenza di cambiamenti di tempi (velocità costante). Dunque ogni cambiamento di tempo è determinato da forze esterne, ossia da azioni dell’interprete che devono essere ben focalizzate e calibrate.
Nel caso di un rallentando, potremo percepire la spinta data dalla forza d’inerzia, che tende a mantenere la velocità costante, e dunque a resistere alla “frenata”, esattamente come avviene in auto o in treno. Un rallentando musicalmente organico, dunque, sarà quello che considera la forza d’inerzia, e dosa la diminuzione della velocità secondo una curva graduale, che in natura quasi mai è lineare. Di solito, infatti, la prima fase del rallentamento è più graduale, e l’azione dell’attrito (frenata) diviene sempre più efficace col proseguire del rallentamento. I rallentando che procedono “a scatti”, quindi, suonano di solito innaturali, anche se spesso l’effetto voluto dal compositore può essere quello di una volontaria, drastica alterazione del moto naturale (come spesso accade in Beethoven).
Lo stesso principio vale, naturalmente, per tutti i cambiamenti di tempo, anche quelli drastici, senza un rallentando o accelerando. In tali casi, la forza d’inerzia tende a farci mantenere il tempo precedente, quindi a smussare il rapido cambiamento di velocità spesso richiesto in partitura. È importante, dunque, prevedere con il dovuto anticipo ogni cambiamento drastico di tempo, come farebbe un direttore d’orchestra, per azzerare l’effetto limitante della forza d’inerzia. Siamo noi interpreti a imprimere quella “forza esterna” che determina il cambiamento del moto uniforme.
Questo accade ogni volta che iniziamo a suonare un brano, in quanto passiamo dallo stato di quiete a quello di moto. La difficoltà di molti interpreti è nel sapere definire il tempo di un brano sin dalle prime note, e c’è chi tende, assecondando involontariamente la forza d’inerzia, a prendere il tempo un po’ alla volta. Per evitare questo, qualora non sia un effetto voluto, è sufficiente pensare al tempo iniziale in anticipo, suonando mentalmente l’inizio del brano: così faremo partire la musica prima dell’esecuzione della prima nota, ed “entrando” in essa come salendo su un treno in corsa. dunque senza subire la forza d’inerzia.
Ogni interprete, del resto, sviluppa negli anni un proprio modo di agire e modificare la forma e i parametri di ciascuna frase. Più le azioni dell’interprete sono coscienti e in rapporto chiaro con le leggi naturali, più il risultato espressivo sarà efficace e coinvolgente.
SCEGLIERE IL DITO GIUSTO
La scelta della diteggiatura è un aspetto determinante per la risoluzione di molti passaggi. Molti compositori che furono anche pianisti, come Chopin, Schumann e Liszt, hanno scritto di proprio pugno le diteggiature sulle loro partiture, poiché la scelta di un determinato assetto della mano, dato da quella particolare diteggiatura, condiziona anche il risultato timbrico e la forma dinamica di una frase musicale.
Nella scelta delle diteggiature è quindi fondamentale prendere subito in considerazione le soluzioni suggerite dai compositori, e cercare di capire l’intenzione che si cela dietro: spesso, specie nel caso di Schumann o di Chopin, le diteggiature proposte possono sembrare astruse, ma a ben vedere “costringono” la mano ad assumere un assetto che produrrà un timbro particolare, voluto dal compositore.
Qualora la diteggiatura non sia indicata dall’autore, bensì dal revisore, vale sempre la pena provarla e verificare quale sia l’effetto nell’esecuzione. Alcune edizioni delle Sonate di Beethoven, ad esempio, sono diteggiate da grandi pianisti (Schnabel-Curci, Arrau-Peters, Perahia-Henle), così come nei concerti di Mozart sono spesso illuminanti le diteggiature di Christian Zacharias.
Vale sempre la pena, comunque, e specie nei casi in cui il “diteggiatore” non sia un eccelso pianista, di provare e ricercare altre diteggiature, per rendersi conto di come un diverso assetto della mano comporti un conseguente risultato musicale.
La scelta di una diteggiatura, infatti, influisce su altri aspetti dell’esecuzione: costringe ad assumere una diversa posizione della mano, a raggruppare e a pensare le note diversamente, a distribuire diversamente il peso. Anche la gestione dello sguardo sulla tastiera sarà dipendente dalla diteggiatura, in quanto dovrà concentrarsi sui cambi di posizione determinati proprio dai raggruppamenti di note imposti da ciascuna diteggiatura.
La scelta della diteggiatura deve essere dettata dalla nostra intenzione musicale, prima ancora della comodità di esecuzione. Ad esempio, se useremo il pollice su una nota, otterremo probabilmente un attacco “in giù”, mentre se vogliamo sfumare la nota useremo un altro dito, più compatibile con il movimento ascendente del polso, necessario per ottenere un attacco “in su”. In base, dunque, all’articolazione e alla dinamica che vogliamo ottenere, sceglieremo una diteggiatura adeguata.
Nel diteggiare una scala, è utile guardare alle armonie che si attraversano, per scegliere su quale nota passare il pollice. Infatti nei cambi di posizione, quindi anche nei tasti suonati dal pollice nelle scale ascendenti, può avvenire un involontario accento. La scala di do maggiore, ad esempio, funziona armonicamente meglio se si volta il pollice sul sol (grado fondamentale dell’accordo di sol maggiore, dominante di do) piuttosto che sul fa, come invece siamo stati abituati dalla tradizionale diteggiatura scolastica.
La scelta della diteggiatura va sempre abbinata alla scelta dell’assetto della mano e del braccio con che adottiamo per suonarla. Infatti la stessa diteggiatura può funzionare più o meno bene in base a come teniamo il polso e l’avambraccio, all’orientamento della mano e alla posizione delle dita (rotonde o dritte). Tutti questi dettagli non sono indicati dai numeri delle diteggiature, ma possono facilmente essere dedotti in base all’esperienza. Ad esempio, la diteggiatura 1-2-4-5 dell’inizio dello Studio op. 10 n. 1 di Chopin sarebbe impossibile se si tengono le dita rotonde, mentre funziona benissimo se apriamo la mano e accompagniamo il suo movimento con una leggera rotazione, per agevolare il dito che suona. Lo studio delle diteggiature va, dunque, abbinato ad una particolare cura dei movimenti della mano: è importante sempre anticipare il posizionamento di ogni dito sul tasto, e programmare un modo consapevole lo sguardo, specie nei cambi di posizione della mano. Una diteggiatura che funziona ci consentirà sempre di preparare i cambi di posizione con il necessario agio, e senza costringere la mano e il braccio a movimenti bruschi o scomodi. Viceversa, spesso un precario controllo del suono, o un involontario accento, sono causati da una diteggiatura non opportuna o non sufficientemente supportata dal giusto assetto della mano.
Anche diteggiature apparentemente inutili sono, in realtà, spesso funzionali ad una migliore esecuzione. È il caso del cambio di dito sulla stessa nota, pratica molto comune nelle diteggiature di Chopin: egli spesso usa il passaggio del dito su una nota tenuta per costringere il nostro orecchio a legare meglio una frase. Quando, infatti, cambiamo il dito sulla stessa nota tenuta costringiamo il nostro orecchio a ri-ascoltare la risonanza della nota, come se la dovessimo risuonare, e ciò ci aiuta a connettere la risonanza della nota a quella seguente.
Un altro principio utile nella scelta della diteggiatura è quello del “fresh fingering”: nei passaggi di scale o arpeggi capite spesso di “ripassare” sullo stesso tasto a breve distanza. In questo caso, per evitare un’espressione ripetitiva, è utile tornare sullo stesso tasto con un dito diverso, per rendere il fraseggio più vario e meno prevedibile.
Una diteggiatura inopportuna può spesso essere la causa di errori reiterati. Nel caso di passaggi irrisolti, è utile provare a suonarli con diteggiature diverse, e a volte ciò può risolvere istantaneamente problemi tecnici.
Il cambio di una diteggiatura a cui siamo avvezzi, tuttavia, va fatto con prudenza e non a ridosso di un concerto o esecuzione pubblica, in quanto per modificare gli automatismi occorre del tempo e uno studio metodico.
CONSIDERAZIONI SUL TIMBRO PIANISTICO
Le modalità più efficaci per influire sulla qualità del suono riguardano principalmente la dinamica, la sincronizzazione, la pedalizzazione.
1. La dinamica. Il timbro cambia notevolmente quando si varia il rapporto dinamico tra le varie note: sia in senso orizzontale (considerando il rapporto di una nota con le note precedenti e con quelle successive), sia in senso verticale (dando un peso diverso ad ogni singolo suono che compone un accordo). In questo caso, evidentemente, per timbro pianistico non si intende la qualità sonora di una singola nota, ma il risultato della sovrapposizione o della successione di diversi suoni, che danno luogo ad un accordo o ad una linea melodica. Ogni grande pianista ha il suo proprio modo di dosare e combinare le dinamiche dei suoni per ottenere un determinato timbro, così come i pittori fanno con i colori. È pertanto impossibile riassumere in poche righe i principi che regolano la combinazione delle dinamiche in un accordo o in una linea, ma senza dubbio è indispensabile una notevole varietà di dinamiche per ottenere una maggiore ricchezza timbrica. Ad esempio, se in un accordo tutti i suoni avranno la stessa dinamica, il risultato timbrico sarà alquanto opaco e spento. Anche in una linea melodica è fondamentale variare la dinamica di ogni singola nota, altrimenti il fraseggio sarà statico e privo di inflessioni.
2. La sincronizzazione. Il timbro varia notevolmente anche in base alla sincronizzazione dei suoni sovrapposti: spesso, anticipando o posticipando il basso rispetto alla melodia, è possibile arricchire il suono del cantabile, poiché con l'abbassamento dei tasti non perfettamente sincrono si sviluppa un maggior numero di armonici. Il cosiddetto "scampanío", ossia l'anticipazione del basso rispetto alla melodia, è un procedimento noto a tutti i pianisti, e spesso "vietato" dagli insegnanti. In realtà, se utilizzato in modo opportuno, esso consente di ottenere una migliore proiezione del suono, poiché si attutisce l'effetto di percussione dei martelli, e si percepisce meglio l'indipendenza delle varie linee. Non a caso quasi tutti i più grandi pianisti hanno fatto largo uso di questo espediente: tra i più assidui utilizzatori dello "scampanío", ricordiamo Benedetti Michelangeli, Cortot, Friedmann, Rachmaninoff. Molto efficace è anche l'effetto contrario, ossia l'anticipazione della melodia sul basso. L'arrivo ritardato del basso consente di sviluppare un ulteriore quantità di armonici nelle corde che sono già in vibrazione, ottenendo una sorta di prolungamento della curva dinamica. Molti pianisti russi, tra cui Kissin, utilizzano questo procedimento in modo sistematico.
3. I pedali. a) Il Pedale "una corda". Con il pedale di sinistra, detto "una corda", non solo si è in grado di ottenere un assottigliamento dinamico: si può anche variare la ricchezza del timbro in varie gradazioni, abbassandolo tutto o solo in parte. L'azione del pedale "una corda", infatti, consiste nello spostamento laterale della martelliera, così che le corde siano percosse da una zona diversa del martello. Quando questo pedale è abbassato completamente, solo due corde su tre sono toccate dal martello, con un conseguente assottigliamento dinamico e timbrico. Ma anche quando il pedale è premuto solo parzialmente si determina un cambiamento del suono, poiché varia il punto di contatto del martello con le corde. Se il pedale "una corda" non è abbassato affatto, le corde sono colpite da una zona del martello di notevole durezza e compattezza, dovute al "solco" formatosi per la frequente percussione. Con il pedale "una corda" abbassato, il martello, spostandosi lateralmente, toccherà le corde con una parte meno "battuta" (priva del solco), e caratterizzata da una maggiore elasticità, così da sviluppare un suono meno percussivo e più morbido. L'efficacia del pedale "una corda" è molto più evidente nel registro acuto dello strumento, ma risulta di grande utilità anche negli altri registri. Non va usato soltanto per suonare piano o pianissimo. È anche possibile, ad esempio, suonare fortissimo con il pedale "una corda" completamente abbassato: in tal modo si otterrà un suono molto definito ed incisivo, ma allo stesso tempo indiretto e lontano.
b) Il pedale tonale. Il pedale centrale del pianoforte a coda, detto pedale tonale, consente di mantenere alzati gli smorzatori dei soli tasti che sono premuti al momento del suo azionamento, così da lasciare in vibrazione alcune corde, e contemporaneamente ottenere suoni corti o staccati con altre corde. Una potenzialità interessante di questo pedale riguarda lo sviluppo dei suoni armonici: infatti, alzando gli smorzatori di alcune corde, queste saranno poste in vibrazione per simpatia (senza essere percosse dal martello) da altre corde corrispondenti ad uno dei suoni armonici più vicini. Il pedale tonale si è diffuso a partire dalla seconda metà dell'800, ma ciò non toglie che esso possa essere utilizzato con efficacia anche nell'esecuzione di musiche composte precedentemente.
c) Il pedale di risonanza. A proposito del pedale di destra, detto "di risonanza", o semplicemente "pedale", segnalo l'utilissimo libro di K. U. Schnabel, "Tecnica moderna del pedale" (Edizioni Curci), in cui sono illustrati con chiarezza alcuni modi non convenzionali di usare il pedale, come, ad esempio, il pedale vibrato, il mezzo pedale, il cambiamento parziale del pedale. Grazie al pedale è anche possibile ottenere effetti di Forte-Piano e di diminuendo su una stessa nota tenuta (alzando parzialmente il pedale e riabbassandolo), nonché particolari tipi di staccato (suonando staccato con il pedale parzialmente abbassato) e di "superlegato" (cambiando il pedale parzialmente, o in ritardo). Un espediente di frequente utilità consiste nell'abbassare il pedale prima di iniziare un brano: ciò determinerà una maggiore ricchezza timbrica, poiché molte corde non percosse vibreranno per simpatia. Anche la realizzazione di passaggi veloci o in "pianissimo" risulta molto più agevole quando il pedale è abbassato, poiché in tal caso la meccanica si alleggerisce (non dovendo azionare gli smorzatori, che sono già alzati) e la corsa del martello è molto più controllabile e fluida. È inoltre da sfatare il "dogma" che prescrive di cambiare il pedale quando cambia l'armonia. Anzi, a volte proprio mescolando parzialmente diverse armonie si ottengono effetti timbrici di particolare bellezza. Peraltro, anche Beethoven, Schumann, Chopin e Liszt hanno prescritto di proprio pugno l'uso di pedali lunghi, con la conseguente sovrapposizione di armonie differenti. Ne è un esempio tipico il terzo movimento della Sonata op. 53 di Beethoven. Pur considerando che i pianoforti odierni hanno una maggiore risonanza, è ancora possibile rispettare quelle indicazioni, eventualmente ricorrendo al cambiamento parziale del pedale. Radu Lupu è un grande maestro in tal senso.
Al di là di queste considerazioni, per ognuna delle quali ci sarebbe da scrivere un intero libro, ritengo, però, che anche una nota considerata singolarmente, a prescindere dai rapporti dinamici con altri suoni e dall'uso dei pedali, possa essere variata timbricamente. Credo, in sostanza, che se lo stesso tasto dello stesso pianoforte viene azionato con modalità diverse (a parità di intensità dinamica e con lo stesso tipo di pedalizzazione), si possano ottenere timbri diversi.
Ciò è possibile soprattutto intervenendo sul suono dopo la percussione della corda. A tale proposito vorrei parlare di particolari tecniche che consentono di aumentare o diminuire le vibrazioni delle corde.
Il prolungamento della durata del suono: il "vibrato pianistico". Per prolungare ed amplificare la vibrazione delle corde dopo che sono state percosse, si può utilizzare un procedimento chiamato "vibrato pianistico". Questo si ottiene facendo risalire e riscendere parzialmente il tasto, dopo che il martello ha percosso la corda. In tal modo, il martello si riavvicinerà alle corde già percosse, aumentando l'ampiezza delle vibrazioni in virtù dello spostamento d'aria e del movimento della meccanica. Ne risulterà un suono più ricco di armonici e di durata superiore. È quasi indispensabile effettuare il vibrato tenendo premuto il pedale di destra, per evitare che gli smorzatori, abbassandosi, blocchino la vibrazione delle corde. La frequenza e l'ampiezza del vibrato possono essere più o meno grandi, determinando una varia gradazione timbrica. Se il vibrato è adottato per tutte le note di uno stesso accordo, il risultato è ancor più evidente. Naturalmente, l'uso del vibrato è possibile esclusivamente con i pianoforti a coda, poichè la meccanica dei verticali non consente un buon controllo del movimento dei martelli. Anche nei pianoforti a coda, peraltro, l'attuazione del vibrato richiede una grande abilità ed esperienza, nonchè una regolazione ottimale della meccanica, per non incorrere nell'involontaria ripercussione delle corde. I pianoforti con una migliore tavola armonica sono più sensibili all'effetto del vibrato. Alcuni dei più grandi pianisti utilizzavano spesso il vibrato: i video di Arturo Benedetti Michelangeli sono una utilissima testimonianza a tale proposito. L'uso del vibrato è alla base della didattica di Karl Ulrich Schnabel, uno dei più grandi insegnanti di pianoforte nel Novecento.
L'accorciamento della durata del suono. Per ottenere, invece, un suono più incisivo e percussivo, basta attutire le vibrazioni delle corde, facendo risalire parzialmente (una o più volte) i tasti, così che gli smorzatori sfiorino per un attimo le corde. In tal modo si possono realizzare i segni di diminuendo su note lunghe, spesso presenti nelle partiture pianistiche di Beethoven, Schubert, Schumann, Liszt. Questo effetto è anche ottenibile con l'ausilio del pedale, come già accennato, ed è utilizzabile con grande efficacia anche assieme al vibrato.
Non oso addentrarmi in ulteriori considerazioni più aleatorie e non (ancora) dimostrabili scientificamente a proposito del tocco pianistico. Personalmente, comunque, sono convinto che un diverso approccio fisico con la tastiera determini un diverso risultato sonoro, a prescindere dall'intensità dinamica. Ciò che più conta, però, è l'intenzione, ossia l'immaginazione timbrica dell'interprete: senza la quale, anche il più efficace controllo tecnico del suono risulterebbe sterile.