AFFRONTARE IL PUBBLICO
Ogni volta che un musicista si trova ad esibirsi in concerto, ha una grande opportunità: quella di condividere la bellezza della musica con tante altre persone. Eppure ciò a volte genera reazioni negative: paura di non essere all’altezza, di fare degli errori, ossia, in breve, ansia da prestazione. E non sempre il problema si risolve con l’esperienza: sono noti i casi di grandi artisti che anche dopo migliaia di concerti continuano a soffrire prima di entrare in scena. Personalmente, credo che l’approccio migliore per un rapporto sano e positivo con il pubblico sia quello di proiettare l’attenzione sulla musica, sul bello di condividerla con persone che sono accorse al concerto proprio per il desiderio di star bene, di arricchirsi grazie all’ascolto di capolavori musicali. Certamente, la gran parte del pubblico è composta di uomini e donne bendisposti, pronti a ricevere il dono di un artista che mette la propria sensibilità a servizio della musica e della sua condivisione. Focalizzandosi su questo pensiero, è più facile allontanare le paure, e rendere la propria interpretazione più intensa, accogliendo la concentrazione dell’ascolto da parte del pubblico. Quando si innesta questo circolo virtuoso, il concerto diventa un momento magico, e anche eventuali piccole imperfezioni passano inosservate, in quanto l’orecchio è proiettato a seguire un messaggio di intensità superiore. Non sempre è facile porsi in questa condizione, ma senza dubbio è importante provarci. E se il risultato sarà gratificante, ciò sarà merito sia dell’interprete, sia del pubblico: il concerto è un evento collettivo, dove tutti i partecipanti hanno un ruolo attivo e contribuiscono alla sua riuscita.
IL CONCERTO VISTO DAL PALCOSCENICO
Il concerto è un momento unico, in cui un'artista ha l'opportunità di trasmettere al pubblico le proprie idee ed emozioni in modo diretto ed intuitivo. Tuttavia, vi sono molti elementi che influenzano la comunicazione acustica ed emotiva della musica: questa non coincide esclusivamente con le intenzioni espressive dell'esecutore, ma è in parte determinata sia dalle sue condizioni fisiche e psicologiche, sia da numerosi parametri esterni, che possono variare da un giorno all'altro, se non anche durante la stessa serata.
Naturalmente, lo strumento ha un'influenza fondamentale: può subire sensibili alterazioni le oscillazioni della temperatura o dell'umidità ed assumere una sonorità completamente diversa in base all'acustica della sala. Per i pianisti e gli organisti il problema è più complesso, poiché devono cercare di ottenere il massimo da uno strumento che non conoscono, e che può essere molto diverso dal proprio. Nel pianoforte, ad esempio, le variabili sono molte: il timbro, la risposta dinamica, la lunghezza del suono, il peso e la corsa della tastiera, e addirittura le dimensioni dei tasti neri, che possono essere più o meno lunghi, o più o meno rastremati. La preparazione tecnica del pianoforte, che comprende l'accordatura, l'intonazione e la messa a punto della meccanica, è un altro elemento particolarmente importante: molti pianisti sanno come lo stesso strumento possa migliorare incredibilmente se viene curato da un tecnico di primo livello. Anche la panca può creare non pochi problemi: può essere rumorosa, instabile, inclinata o non perfettamente regolabile, e non sorprende quindi che molti decidano di portarla con sé.
Il palcoscenico è un elemento determinante per la riuscita di un concerto. In molti teatri antichi esso non è in piano, ma in discesa verso la platea, e costringe gli esecutori (specie i pianisti) a suonare con il baricentro spostato. Nei casi più “gravi”, si usano degli spessori da porre sotto la ruota destra del pianoforte; a rigor di logica, questi andrebbero posti anche sotto la panchetta, per mantenerla sullo stesso piano. Sembrano inezie, ma tutti questi aspetti richiedono un particolare adeguamento nel calcolo delle distanze e della forza da imprimere alle dita, che spesso influisce anche sul risultato artistico dell'esecuzione. Non stupisce, pertanto, che i pianisti più pignoli vadano in giro con la livella per verificare la pendenza della tastiera!
L’acustica dell’auditorium può altamente valorizzare (ma anche rovinare!) una performance concertistica. Una buona sala deve pure restituire all'esecutore un attendibile riscontro auditivo sul palco, consentendogli una verifica continua del suo lavoro, per stimolarlo a ricercare ulteriori dettagli espressivi. Al contrario, un'acustica poco funzionale, sia essa troppo secca o troppo ridondante, può costringere l'artista ad una radicale modifica dei parametri esecutivi (velocità, dinamica, articolazione), rischiando di limitare sensibilmente l'efficacia della comunicazione.
La concentrazione dell'interprete è soggetta a molteplici disturbi sonori o visivi presenti in sala: essi spesso influiscono in modo determinante sull'esecuzione. I rumori regolari, come ticchettii di orologi o gocce d'acqua, possono avere un "effetto metronomo" che crea interessanti giochi poliritmici... Anche le luci e i colori che circondano l'interprete ne influenzano il rendimento, alterando a volte la percezione acustica dei suoni. Le relazioni tra vista, udito ed olfatto sono state oggetto di numerosi studi scientifici, che hanno rivelato interessantissime conseguenze sulle capacità sensoriali. Ciò vale, naturalmente, anche per gli ascoltatori.
I rumori del pubblico costituiscono un problema più complesso, poiché l'artista li percepisce in gran parte come una reazione alla propria esecuzione. Anche un innocente colpo di tosse, quindi, può per lui rappresentare il sintomo di un insuccesso, o per lo meno di un'insufficiente tensione espressiva. Il rapporto con il pubblico è diverso in ogni concerto. L'artista tende sempre a farsi un'idea precisa di coloro a cui si rivolge, a volte individua una o due volti che diventano inconsapevolmente i suoi interlocutori, e magari cerca di carpire le loro reazioni durante gli applausi. Quasi nessuno ritiene di dover cambiare la propria interpretazione in base al tipo di pubblico che trova, tuttavia ciò accade molto spesso, quasi sempre inconsciamente. È naturale che, se si crea una certa complicità tra gli ascoltatori e l'artista, questi sarà più a suo agio, sentirà la loro fiducia e saprà dare il massimo per soddisfarne le aspettative. Al contrario, se avvertirà una diffidenza in base al tipo di applausi, ai rumori di sala, o semplicemente al proprio istinto, il concerto sarà tutto in salita. Perciò è bene conoscere le abitudini dei vari pubblici, così da non fraintendere le loro reazioni: giova sapere, ad esempio, che a Tokio si applaude meno che a Città del Messico, o che i fischi di New York hanno un significato opposto di quelli di Milano.
Esistono, inoltre, alcuni elementi apparentemente trascurabili che influenzano il rendimento del concertista: la pressione atmosferica, la temperatura, le ore di sonno, l'alimentazione, le preoccupazioni familiari, il successo della squadra di calcio per cui tifa, e tanti altri aspetti della vita quotidiana. Ognuno affronta questi problemi in modo diverso: c'è chi si rinchiude in ritiro per diversi giorni prima del concerto, o chi ascolta la partita di calcio fino a quando non deve entrare sul palco!
L'aspetto a cui i musicisti danno maggior importanza nella preparazione di un concerto è lo studio del repertorio in programma. Si cerca di limitare al minimo i margini di errore, per poter affrontare e risolvere al meglio tutti gli imprevisti di cui sopra. A mio parere, tuttavia, la qualità della preparazione tecnica non è in un perfetto rapporto di causa/effetto con il risultato in concerto. Spesso un programma ipercollaudato, limato nei minimi dettagli, riesce meno bene di un altro più difficile e preparato in meno tempo. Ciò non dipende soltanto dalle contingenze esterne, ma anche da una maggiore attenzione e da un superiore impegno che spesso sono presenti nei concerti più "a rischio". E la consapevolezza di non aver messo a punto perfettamente tutti i dettagli può anche influire positivamente, stimolando una ricerca della magia estemporanea che renda il concerto un'esperienza unica e significativa per il pubblico. La preparazione minuziosa del programma serve principalmente a dare sicurezza psicologica all'interprete, ma si può convertire in uno svantaggio se va a limitare la creatività dell'interpretazione concertistica.
In conclusione, la maggior parte di ciò che influenza il risultato di un concerto è indipendente dalla buona volontà dell'artista. Tuttavia egli può rendersi la vita più facile se riesce a raggiungere una concentrazione sufficiente a dimenticare ciò che può disturbare il suo rendimento. Concentrazione non significa, però, chiusura totale verso l'esterno. Anzi, la creatività musicale si alimenta proprio con stimoli extramusicali, e, com'è ovvio, più un artista ha esperienze di vita profonde e molteplici, più la sua musica sarà altrettanto ricca ed interessante.
L'interpretazione, peraltro, non può essere ermeticamente conservata uguale a se stessa, ma si adegua naturalmente alle vicende umane dell'individuo e della cultura che lo circonda. Per questo è fondamentalmente inutile cercare di copiare da altri artisti, o rincorrere un'idea perfetta di esecuzione in base al ricordo di una serata particolarmente riuscita: magari la stessa identica interpretazione non si adatterebbe ad un contesto diverso, e risulterebbe poco efficace in termini di espressione emotiva. In fin dei conti, la musica esiste solo in base a quanto è percepito da ognuno. La preoccupazione maggiore per un concertista dovrebbe essere, quindi, di comunicare al meglio le proprie idee e la propria interiorità, attraverso il messaggio musicale lasciato dai grandi compositori del passato (o, perché no, del presente).
Ci avviamo verso un mondo in cui la perfezione tecnica e l'oggettività rischiano di diventare un'ossessione. Forse è compito della musica, di chi la produce e di chi ne fruisce, fare in modo che la poesia e l'imprevedibilità dell'arte continuino ad arricchire e valorizzare la nostra esistenza.
ASCOLTARSI DA LONTANO
Una delle esigenze primarie per un concertista di musica classica è un'adeguata proiezione del suono in sala. Se il suono non giunge in modo chiaro e ben percepibile all'ascoltatore, del resto, anche un'interpretazione finissima e ricca di dettagli rischia di essere scarsamente comunicata, o addirittura fraintesa dal pubblico.
Molti grandi interpreti, tuttavia, si preoccupano molto più della perfetta messa a punto del loro strumento, e molto meno di come il suono arriva all'ascoltatore in una determinata sala. È pur vero che ogni sala ha caratteristiche acustiche diverse, le quali a volte modificano radicalmente la proiezione del suono. Anche la percezione della velocità e la chiarezza dei dettagli sono, quindi, largamente influenzate dal riverbero e dall'equalizzazione della sala, la cui acustica può aggiungere morbidezza al suono (a volte, però, discapito della chiarezza dei dettagli), o renderlo più aspro o gonfiarlo in modo sproporzionato. Spesso un'orchestra o un solista in tour hanno poche ore per provare in una sala, e il tempo a loro disposizione per testare la risposta acustica è quindi estremamente limitato. Come fare, dunque, per ottimizzare la proiezione del suono in poco tempo?
Nella mia esperienza, ho appurato che è sempre molto utile ascoltare il nostro strumento stando seduti in platea, chiedendo quindi ad un collega di suonarlo al posto nostro. Così avremo, ovviamente, una impressione generica e non precisa, in quando ogni musicista ha un modo diverso di suonare, ma può servire a farci un'idea di massima su come il suono “viaggia” nella sala e su come arriva, a volte cambiando radicalmente a seconda della posizione in sala da cui si ascolta.
A questo punto ci sarà anche più facile, una volta tornati sul palco a suonare, immaginare di ascoltarci dalla platea, mentre noi stessi stiamo suonando. Se proveremo, infatti, a collocare idealmente il nostro punto di ascolto non sul palco in cui siamo, ma più lontano, nel mezzo della sala, ci sarà più facile pensare a proiettare il suono lontano, e gestire anche il tempo di propagazione del suono e delle risonanze in base all'acustica della sala. A ben vedere, ogni sala può essere considerata come una grande cassa di risonanza, e quindi come parte dello strumento stesso: l'acustica della sala trasmette il suono dallo strumento all'ascoltatore ed è, quindi, un imprescindibile anello della catena di comunicazione della musica dal vivo.
Anche nello studio quotidiano, pur in una stanza molto piccola, può essere utile abituarsi ad “ascoltarsi da lontano”, come se sedessimo in una platea immaginaria, e sforzarci di produrre un suono che possa viaggiare bene nell'aria, e arrivare lontano. Ciò dipende anche da fattori tecnici: usando una leva lunga, come, ad esempio, tutto il braccio, e non solo il dito, il suono acquisirà una profondità maggiore.
In sintesi, dunque, è importante “ascoltare” la sala in cui si suona, e non solo il nostro strumento. Il risultato di un'esecuzione è un'alchimia tra le nostre idee espressive, la risposta dello strumento e l'intervento dell'acustica, e solo dando la giusta considerazione a tutti questi tre elementi potremo esprimere al meglio le nostre intenzioni musicali.
MARTIN BERKOFSKY E LE MOTIVAZIONI DEL FAR MUSICA
Quando incontro studenti di pianoforte in occasione di master class o audizioni, la prima domanda che pongo loro è: “Perché tu suoni?”. Mi interessa, cioè, sapere quale è la loro motivazione profonda, o se hanno un obiettivo a lungo termine che li sprona a trascorrere tante ore al giorno nello studio di uno strumento. Nella maggior parte dei casi, a questa domanda seguono reazioni di imbarazzo o di stupore. Chiedere “Perché tu suoni?” crea disagio. Il motivo più evidente di questo disagio è spesso legato al prendere atto che si fa qualcosa da tanti anni senza essersi mai chiesti realmente il perché. Ciò non vuol dire che non vi sia un perché, ma, piuttosto, che spesso la routine dello studio quotidiano e della vita scolastica o professionale rischia di offuscare le nostre motivazioni più profonde.
C’è chi risponde: “Suono perché ho iniziato sin da piccolo e ormai voglio arrivare al diploma”. Oppure: “Suono perché voglio diventare un concertista ed essere famoso e ricco”. Motivazioni comprensibili, ma forse legate più ad una presa d’atto di ciò che gli altri (genitori, insegnanti, amici) si aspettano da noi, che non a ciò che noi realmente sentiamo. Spesso si tende a confondere un obiettivo a medio o lungo termine, come il diploma del conservatorio o la vittoria di un importante concorso internazionale, con la motivazione profonda, che va, evidentemente, cercata altrove.
Del resto, dedicare una vita alla musica è una scelta radicale e chiaramente dettata da una forte passione: non si tratta di una strada che offra particolari garanzie di successo professionale o di arricchimento economico, e va da sé che ci deve pur essere una forte spinta interiore. A molti piace suonare perché tramite la musica riescono a vivere più intensamente, o perché sviluppano una sensibilità di ascolto e di sguardo interiore che impreziosisce ogni giornata, o perché la disciplina di uno studio costante e metodico aiuta a raggiungere un migliore equilibrio interiore. Tutte motivazioni condivisibili e legate al proprio vissuto e alla propria sensibilità.
Vorrei quindi porre l’accento sull’importanza della consapevolezza delle proprie motivazioni: solo mettendo a fuoco i propri obiettivi e le proprie aspirazioni profonde, e non confondendole con le aspettative che gli altri possono avere su di noi, riusciremo a trovare una via sincera e proficua per trovare, nella musica, le risposte alle nostre domande.
Mi piace in questo contesto ricordare il grande pianista Martin Berkofsky (1943 – 2013), artista di eccezionale talento, intensità e spiritualità. La sua visione filantropica del far musica come mezzo potente e infallibile per condividere bellezza e per superare momenti dolorosi è ben sintetizzata dalle sue stesse parole: Il ruolo dell’interprete è di donare bellezza e ispirazione agli altri, e di farlo con la più onesta e umile ricerca di questi valori in noi stessi, nella volontà di creare un mondo migliore. La musica cura. Porta la pace allo spirito, gioia al cuore, conforto al corpo fisico. Trasforma l’umanità in fraternità. Incoraggia a lottare con generosità per gli altri, per alti ideali. A dedicare se stessi e il nostro lavoro per quel che nobilita lo spirito umano, a superare e risolvere, anche le malattie e i conflitti più dolorosi, e tiene alto il piano dei valori per i quali ci impegniamo in prima persona.
PROFESSIONISMO E ARTE
Professionismo e arte sono due mondi che spesso vanno di pari passo, specialmente nell'ambito della musica classica: i migliori musicisti sono tutti dei “professionisti della musica”, ma il concetto di “professionismo”, quando applicato ad una interpretazione musicale, non può trascurare l'efficacia della comunicazione del messaggio artistico.
Oggi è sempre più diffusa l'idea che un musicista professionale debba avere un totale controllo su ciò che fa: giustissimo, naturalmente, se non fosse che questa può diventare una priorità che va a discapito della condivisione emotiva e dell'approfondimento interpretativo. Sempre più spesso, purtroppo, oggi il professionismo fa rima con la prudenza, con l'assenza di slanci ed entusiasmi, con la paura di prendersi dei rischi interpretativi pur di salvaguardare un “contegno” professionale che non ammette cedimenti.
Il discorso è certamente complesso e delicato. Ma bisognerebbe forse riconoscere i limiti di un sistema di formazione musicale, diffuso in Italia, basato su un repertorio limitato e su modelli interpretativi spesso imposti come calchi da riprodurre.
Ad esempio, è più professionale saper suonare gli Studi di Chopin copiando pedissequamente l'incisione di Maurizio Pollini (pur senza eguagliarne la tensione musicale), o riuscire a commuovere il pubblico in un recital, a discapito di qualche nota sporca?
Meglio dare la priorità ad un'esecuzione senza note sbagliate ma con gravi errori di “pronuncia” musicale, o prendersi dei rischi per rispettare le articolazioni e il fraseggio indicati dall'autore??
E, per contro, è più grave sporcare un passaggio virtuosistico perché lo si esegue con slancio e passione, o suonare quel passaggio stando solo attenti a non sbagliare, e quindi senza il dovuto entusiasmo e coinvolgimento?
LA FORZA DELLE IDEE
Recentemente ho fatto parte della giuria di un concorso internazionale. Ho così potuto ascoltare molti pianisti, spesso confrontando l’interpretazione dello stesso brano, e ho compreso meglio cosa esattamente mi colpisce e affascina durante l’ascolto di un musicista: la forza delle idee che sa esprimere durante l’esecuzione. Più le idee sono forti, più sono convincenti. E più sono convincenti, più sono coerenti con quanto scritto in partitura e con i principi fondamentali della musica occidentale: il rispetto della tensione armonica e intervallare, la chiarezza nel dar forma plastica alle frasi, la gestione drammatica e narrativa della forma. Sono, naturalmente, queste le priorità che un interprete dovrebbe perseguire nello studio e nelle esecuzioni in pubblico, sia in concorso, sia in concerto (anche perché non dovrebbe esserci alcuna differenza di approccio tra le due situazioni). Ma, avendo parlato con alcuni concorrenti eliminati, ho notato che molti di loro erano convinti di non aver superato la prova a causa di errori materiali: note sbagliate o vuoti di memoria, come se un concorso fosse un corsa ad ostacoli, dove si contano gli errori e vince chi abbia effettuato il “percorso netto”.
È raro che ciò accada durante un concorso, quando i concorrenti sono in realtà carichi di un senso di responsabilità che rischia di sviare la loro attenzione dai princìpi prettamente musicali e artistici. Al contrario, spesso un errore, anche evidente, può facilmente passare in secondo piano quando l’interpretazione è coinvolgente, intensa, e sincera. Solo in questi casi si verifica una immedesimazione totale tra interprete e musica, e quando questo accade può anche verificarsi lo stesso tra ascoltatore e musica.
La condivisione della musica dal vivo, sia essa in un concerto, in un concorso, in una lezione, rimane sempre un momento privilegiato. Sono certo che questa sia la via migliore per vivere la musica in modo più intenso e coinvolgente.
LA MEMORIA AL BIVIO
Molti pianisti si confrontano spesso con il problema della memoria, e soprattutto con la paura di incorrere in “vuoti di memoria” durante una performance pubblica. Molto spesso, in realtà, il problema non è legato all’effettiva memorizzazione del brano, ma al rendimento in condizioni critiche, ossia di fronte al pubblico o in contesti di particolare stress (concorsi, audizioni, esami), in cui lo stesso pianista reagisce diversamente. Quindi, più che di problemi di memoria, sarebbe corretto dire “problemi di interferenza con la memoria”, nel senso che sono proprio le interferenze generate da tensioni nervose (e spesso anche muscolari) innescate dalla paura di affrontare una situazione di particolare stress a compromettere l’esecuzione.
Ci sono molti rimedi per ridurre questi rischi, e il primo è, naturalmente, quello di autoconvincersi che non esiste alcun motivo per considerare una performance pubblica come qualcosa di rischioso. È molto importante, inoltre, curare sempre il rilassamento dei muscoli e la costante consapevolezza di quali muscoli stiamo utilizzando: spesso in pubblico si tende ad irrigidire muscoli e tendini che comportano un cambiamento del nostro assetto al pianoforte, e, di conseguenza, rischiano di compromettere anche la tenuta della memoria, la quale si basa anche su riferimenti corporei e tattili.
Nella mia personale esperienza, però, ho notato che i pianisti che hanno maggiori problemi di memoria sono quelli che non hanno una chiara concezione della struttura del brano che eseguono. Ogni composizione musicale presenta, infatti, vari tipi di “bivi”, ossia biforcazioni del discorso, nelle quali, se non si presta attenzione, si rischia di “prendere la strada sbagliata”. In tal caso, può capitare di tornare indietro di parecchie pagine, oppure, al contrario, di trovarsi improvvisamente e anzitempo alla fine del brano. Esiste un semplice rimedio per ridurre il rischio che ciò accada: avere numerosi “paletti” di riferimento durante l’esecuzione del brano, ossia sapere sempre dove ci si trova, avendo ben chiara la “mappa” della composizione e l’itinerario che dobbiamo percorrere al suo interno. In particolare, dobbiamo avere sempre ben presenti quali sono i bivi, e abituare la nostra mente durante lo studio a prevederli con congruo anticipo, esattamente come farebbe un autista navigato che conosce bene la strada che deve percorrere. Così, il rischio di “saltare uno svincolo” è molto ridotto, e qualora anche accadesse, saremmo in tempo per rientrare nella strada principale, senza perdere la rotta.
MUSICISTI E IMMAGINE
Guardando ai diversi approcci con cui i musicisti classici si pongono nei confronti del pubblico e dei media, appare evidente come l’immagine e la comunicazione abbiano un ruolo sempre più importante per determinare il successo professionale. È importante, quindi, che ogni artista si prenda cura di come la propria immagine viene gestita e veicolata.
Per taluni musicisti in carriera, tuttavia, pare che l’obiettivo primario non sia far musica nel migliore dei modi, cercando di essere il più possibile sinceri e fedeli alle intenzioni dei compositori, ma implementare il proprio successo personale tramite un attento lavoro sull’immagine, “usando” la musica per i propri fini personali: sono i “musicisti-glamour”. E, quando la cura dell’apparenza supera di gran lunga l’attenzione sul contenuto, vengono dubbi sull’autenticità di questo approccio. Il successo, però, spesso arride ai musicisti-glamour, e ciò dimostra come il pubblico, purtroppo, sia sempre più sensibile agli ammiccamenti di una bella foto in copertina o su un poster di un concerto, di pari passo con la sempre minore consapevolezza musicale dell’ascoltatore medio, pronto a lasciarsi illudere da attente campagne di marketing.
Molti musicisti seri[osi] sono, ovviamente, critici verso i “musicisti-glamour”, ai quali peraltro invidiano la facilità con cui arrivano al successo. Esiste, però, anche un eccesso opposto, quello dei “funzionari della musica”: costoro sono ancora troppo ancorati a realtà accademiche, e inconsciamente ripropongono schemi musicali e rituali formali appresi dai propri insegnanti o modelli, senza una reale coscienza del proprio ruolo nell’attuale società. Anche per loro, l’attenzione non è focalizzata sulla musica in sé, ma, paradossalmente, ancora una volta sull’immagine: un’immagine, però, niente affatto glamour, ma volutamente grigia, che si ostina a riproporre formalità e atteggiamenti che potevano forse avere un senso 50 anni fa (ma già allora vi erano grandi musicisti come Glenn Gould o Leonard Bernstein che erano per natura allergici ai cliché esteriori del “musicista classico”). I “funzionari della musica”, privi di individualità e sincerità, relegano il loro ruolo a quello impiegatizio di riproporre stilemi preesistenti. Così facendo, assumono una posizione paradossalmente simile a quelli dei musicisti glamour, con cui condividono l’assenza di motivazioni artistiche radicate e di un sincero messaggio da condividere: anche per loro, ciò che conta è il successo. Con la differenza che di solito non lo ottengono, tranne, forse, nei concorsi in cui anche le giurie sono composte da altrettanti “funzionari” (ossia dai loro insegnanti).
Vi è, inoltre, una terza categoria, non meno legata al culto dell’immagine (altrui): quella dei “musicisti imitatori”. Sono quelli che imitano consapevolmente modelli di grandi artisti, ma limitandosi all’apparenza: violinisti che fanno il verso a Uto Ughi o Jasha Heifetz, pianisti che tentano di reincarnarsi in Glenn Gould o Michelangeli. Ma un giovane pianista che ripropone la compassata ed elegante gestualità di Arturo Benedetti Michelangeli difficilmente ne potrà replicare anche il geniale carisma (che era peraltro originale: Michelangeli non imitava nessun altro). E, se anche riuscisse nella copia perfetta di un’esecuzione storica, siamo proprio sicuri che ciò abbia una utilità oggi? Che sia frutto di un suo sincero sentire? Un artista non dovrebbe essere soprattutto se stesso, e di conseguenza originale, portatore di un “proprio” messaggio artistico, da promulgare con coraggio, anche a costo di rompere schemi consolidati?
IL RUOLO SOCIALE DEL MUSICISTA
n prima persona sto subendo la proliferazione di artisti raccomandati immeritevoli che spopolano nelle stagioni di tutt’Italia. Trovo irrispettoso che tante giovani “matricole della musica” non proprio all’altezza siano sempre presenti nei cartelloni delle stagioni più importanti al posto di chi ha più esperienza, capacità e talento di loro.
Così si sfoga su Facebook un pianista vincitore di grandi concorsi internazionali. E sono molti oggi i musicisti che, avendo raggiunto un eccellente livello professionale, si sentono come defraudati del diritto di essere ingaggiati: quasi che un utopistico “sistema musicale” debba garantire loro un’attività concertistica stabile. Ciò poteva forse avvenire negli anni ’60 o ’70 nei paesi comunisti dell’Est Europeo, quando un’organizzazione centralizzata gestiva la produzione culturale con fondi esclusivamente pubblici. Oggi, in Italia, la situazione è drasticamente diversa: la crisi economica e i sempre maggiori tagli alla cultura obbligano i direttori artistici a operare con criteri di convenienza commerciale, a volte a discapito della mera qualità professionale. L’errore in cui spesso cadiamo è di guardare la realtà dell’attuale vita culturale italiana solo da un punto di vista: il nostro, ossia, per quanto mi riguarda, quello di chi sale sul palco e viene pagato per suonare. In questa prospettiva verrebbe spontaneo pensare che il criterio di selezione per una stagione concertistica sia quello della bravura degli interpreti. Ma chi ci assicura che la nostra professionalità, da sola, sia sufficiente a stimolare nel pubblico e negli organizzatori il desiderio di ascoltarci in concerto? E siamo certi che il pubblico sia in grado di percepire realmente la qualità di un artista allo stesso modo in cui la può giudicare un professionista del settore? Inventare nuove forme di comunicazione della musica: non solo concerti in teatro. Proporre la musica classica dal vivo anche a piccolissime dosi, con micro-concerti di 5-10 minuti nelle scuole, nei luoghi pubblici, nei centri commerciali, in abitazioni private, potrebbe forse creare gradualmente un maggiore interesse e sfondare quel muro di gomma che divide la gran parte delle persone dall’ascolto di una sonata di Beethoven Analizzando le carriere fulminanti di musicisti oggi sulla cresta dell’onda e non proprio ineccepibili dal punto di vista professionale, si notano alcuni tratti distintivi che ne hanno determinato il successo a prescindere dalle loro qualità artistiche, e che andrebbero inquadrati e studiati in un contesto sociologico: un dettaglio biografico particolare, un look che li rende subito riconoscibili, un determinato modo di parlare o di porsi. Il pubblico ha bisogno di immedesimarsi in storie umanamente coinvolgenti, e lo stesso puro ascolto musicale può essere più o meno intenso e vissuto proprio in base al contorno, all’immagine che contestualizza la percezione musicale con aspetti che non appartengono alla musica in sé, ma che influiscono sulla sua comunicazione. Dalla fortuna di questi fenomeni c’è molto da imparare: le strategie di marketing applicate con successo in ambito pop o nelle campagne pubblicitarie possono facilmente funzionare anche con i contenuti più articolati dei progetti musicali colti, come mezzi efficaci per creare nuove generazioni di ascoltatori.
Del resto già l’attuale pubblico è in gran parte composto da persone che amano la musica, ma che la ascoltano con un approccio diverso dal professionista. Sono convinto che quasi tutti gli spettatori di un concerto (e mi metto anch’io tra costoro) cercano il coinvolgimento emotivo, attendono l’attimo di commozione, sperano in un momento di magia che li trasporti in mondi lontani e superiori. La nota sbagliata può anche passare inosservata, mentre una debole partecipazione emotiva e l’assenza di comunicazione da parte dell’interprete sono letali. E ciò vale ancor di più per tutto il “resto del mondo”, quell’altro 99,9% di persone che normalmente non si recano ad un concerto di musica classica, ma che potenzialmente potrebbero lasciarsene coinvolgere, se raggiunti in modo efficace. Ma come?
Ad esempio, inventando nuove forme di comunicazione della musica: non solo concerti in teatro. Proporre la musica classica dal vivo anche a piccolissime dosi, con micro-concerti di 5-10 minuti nelle scuole, nei luoghi pubblici, nei centri commerciali, in abitazioni private, potrebbe forse creare gradualmente un maggiore interesse e sfondare quel muro di gomma che divide la gran parte delle persone dall’ascolto di una sonata di Beethoven. Esperienze come Pianocity (un progetto di centinaia di concerti in due o tre giorni nelle abitazioni private di una città) hanno dimostrato che è possibile mantenere la magia di un concerto anche in luoghi diversi da quelli tradizionalmente deputati all’ascolto della musica classica. L’importante è garantire la concentrazione e il silenzio necessari per “somministrare” la musica di Mozart, Beethoven o Chopin, senza che ne sia snaturato il senso. Non, quindi, ascolto in sottofondo, ma momenti in cui l’attenzione di 5, 10, 50 persone sia interamente convogliata verso il messaggio musicale. ll “recital pianistico”, inventato da Liszt nel 1837, rischia oggi di essere un format obsoleto. Forse non si estinguerà, ma andrà certamente rimodellato in base alle nuove modalità di comunicazione della società contemporanea.
E comunque non è vero che il pubblico è “in via di estinzione”. Ma bisogna certamente operare per restituire alla musica classica dal vivo la sua utilità sociale, perché venga percepita come un’esigenza primaria, naturale: non solo intrattenimento, bensì occasione di crescita interiore, di approfondimento introspettivo, di energie individuali convogliate verso un comune sentire. Oggi molti avvertono il bisogno di un rinnovata “salute dello spirito”, di vivere con maggiore consapevolezza la propria sfera emotiva. Ascoltare un concerto non è come partecipare a una seduta di Yoga, ma può dare gli stessi benèfici risultati.
Dobbiamo essere soprattutto noi musicisti, in prima persona, a diventare anche “comunicatori di musica”: divulgatori nel senso più alto e nobile del termine. Divulgazione non significa affatto svilimento o banalizzazione. Al contrario: vuol dire abbattere i pregiudizi e gli steccati sociali che a volte limitano il messaggio poetico di un’interpretazione musicale. Anche creando occasioni in cui la musica venga spiegata: non con paludate conferenze musicologiche, ma con incontri informali in librerie, scuole, pub, giardini, in cui un gruppo di musicisti racconti la propria esperienza con la musica, il proprio sguardo su un determinato autore o brano. Al Parco della Musica di Roma le “Lezioni di Musica” curate da Giovanni Bietti richiamano la domenica mattina più di 1.000 persone, di cui moltissimi giovani e famiglie, ad ascoltare un musicista che parla delle Sinfonie di Beethoven o dei principi del fraseggio pianistico. A New York locali come Le Poisson Rouge propongono tutte le sere musica dal vivo (di vari generi, ma sempre di alta qualità) in un contesto da night club, con un rapporto di diretta e naturale convivialità tra interprete e pubblico, e la gratificazione è anche maggiore di quella che si può riscontrare in una tradizionale sala da concerto. I concerti di Le Poisson Rouge sono trasmessi in video streaming su internet e pubblicizzati soprattutto attraverso i social network: Twitter, Instagram, Facebook. E proprio dai principi fondanti di Facebook c’è molto da imparare: share, like, vale a dire condivisione e passione comune. Sono questi gli ingredienti per una nuova comunicazione. Se ciò avvenisse anche attraverso adeguate produzioni televisive di divulgazione musicale, diffuse viralmente via internet, l’effetto sarebbe ancor più efficace e globale.
Tornando alla condivisibile frustrazione dei tanti professionisti della musica oggi tagliati fuori dal mercato, rimane solo un augurio: che proprio loro, prima che sia troppo tardi, abbandonino un’ottica autoreferenziale, riscoprendo invece la bellezza del comunicare la musica a 360 gradi, dentro e fuori le sale da concerto. Così si potranno offrire al pubblico le chiavi di lettura, i codici per capire meglio la musica e per discernere un grande interprete da un prodotto commerciale: perché alla musica di qualità, e a chi alla musica ha dedicato la propria vita, venga finalmente restituita la giusta attenzione e dignità.
SUI PROGRAMMI DI RECITAL
La scelta del programma è un aspetto del recital ancora oggi spesso trascurato o sottovalutato, eppure sono molte le considerazioni interessanti che scaturiscono da questo argomento.
Dando una scorsa ai repertori dei primi recital, ci si rende conto che la storia del repertorio concertistico è ricca di sorprese e paradossi: attraverso i programmi di sala dei concerti, infatti, è possibile risalire alle abitudini d'ascolto diffuse nel passato, calcolare il grado di popolarità di un determinato autore o brano, e le attitudini degli esecutori di ogni epoca a frequentare con maggiore o minor frequenza repertori diversi. Dalla fine dell’Ottocento, inoltre, il recital non è stato più considerato solamente come una proposta musicale antologica principalmente finalizzata all'intrattenimento o alla dimostrazione (spesso narcisistica) delle doti dell'esecutore, ma anche come un segno della coscienza interpretativa dell'esecutore (almeno nei casi in cui i programmi siano scelti da lui e non imposti dagli organizzatori o da circostanze esterne).
S'intende, ancor oggi l'intento spettacolare e drammaturgico è (per fortuna!) presente nel recital pianistico (o almeno nelle buone intenzioni dei concertisti). Ma sovente, accanto a questo, emerge una propensione a voler indirizzare l'ascolto verso alcuni aspetti delle musiche eseguite, attraverso l'accurata selezione e disposizione dei vari brani. Le potenzialità della composizione dei programmi sono pressoché infinite; senz'altro una particolare selezione dei brani esercita una notevole influenza sulle reazioni del pubblico, risultando a volte determinante per decretare il successo o l'insuccesso della carriera di un pianista. Sarà utile, pertanto, osservare come i pianisti di oggi esprimano diversi approcci della composizione dei programmi. Questi possono effettivamente essere schematizzati in varie categorie, tenendo conto, naturalmente, che come tutte le schematizzazioni si tratta solo di una semplificazione esplicativa, e non di una descrizione esaustiva.
1. I programmi “tradizionali". L’impaginazione tradizionale rappresenta ancor oggi l’atteggiamento più comune e normale nel comporre un programma da concerto. La consuetudine vuole, dagli anni '50 ad oggi, che il recital comprenda brani della durata complessiva compresa tra i 60 e i 90 minuti, scelti ed ordinati secondo alcuni precisi cliché: la disposizione dei brani segue di solito l'ordine cronologico, ed il brano conclusivo è selezionato (e spesso interpretato) in modo da scatenare un notevole applauso. Ciò comporta la scelta di brani con una fine particolarmente brillante e spettacolare, oppure di opere di grande imponenza formale e di lunga durata, cosicché l'applauso conclusivo sia alimentato (oltre che dal sollievo per la fine di un ascolto lungo ed impegnativo) anche dall'ammirazione da parte del pubblico per il pianista che ha affrontato un'opera di speciale difficoltà.
La "tradizione" tende anche a relegare i brani contemporanei in un ruolo secondario ed opzionale, e comunque evitando che essi superino, di solito, la durata di pochi minuti. Un recital tradizionale "tipico" è quello cristallizzato dai programmi ministeriali relativi all'esame di diploma di pianoforte nei conservatori italiani. Si tratta di dettami risalenti al 1920 circa, tanto che, per ovvie ragioni, compositori di importanza storica, come Stockhausen, Boulez, Ligeti, Cage, Feldmann, Berio, non sono neanche nominati! In base a questi programmi ministeriali, tuttavia, molti pianisti italiani costruiscono ancor oggi, oltre che (com'è ovvio) il loro programma d'esame, anche gran parte dei loro recital. Iniziano quindi con un brano di Bach o una sonata di Beethoven (più raramente Mozart o Schubert), proseguono con pezzi romantici (Schumann, Chopin, Brahms, di rado Mendelssohn) e terminano con sonate o brani virtuosistici di Liszt, Prokofiev, Rachmaninoff (del quale la seconda sonata è molto più eseguita della prima), Scriabin, Ravel, Strawinsky. I Trois Mouvements de Petrouchka di quest'ultimo, insieme con il Mephisto-Walzer di Liszt, con le variazioni Brahms/Paganini, la seconda sonata di Rachmaninoff e la settima di Prokofiev, rappresenta, poi il brano conclusivo più scontato ed inflazionato per i giovani pianisti neodiplomati.
Lo schema suddetto presenta indubbiamente una sua coerenza, e, se utilizzato con intelligenza, consente di costruire programmi efficaci e godibili. Tuttavia, le potenzialità della scelta di un programma sono molto più ampie quando il pianista acquisisce una maggiore libertà nel selezionare ed accostare i brani, anche abbandonando il vetusto criterio dell'ordine cronologico, e proponendo musiche di più raro ascolto.
2. I programmi "monografici”. Sempre più numerosi sono i pianisti che mirano ad una proposta compatta ed organica di brani accomunati da uno stesso elemento, per espungerne tutti gli aspetti stilistici e poetici. Esistono diverse sottocategorie dei programmi monografici, in base all’elemento che si pone al centro della monografia.
2.1. Monografie per autori. Il tipo più diffuso di programmi monografici è dedicato ad un singolo autore. Per i pianisti, i compositori “monografabili” più gettonati sono Mozart, Beethoven, Chopin, Schumann, Schubert, Brahms, Liszt, la cui produzione pianistica è tanto vasta da consentire programmi di estrema varietà e di grande interesse. In questi casi, peraltro, è utile che il pianista scelga le composizioni in modo da tracciare una linea evolutiva all’interno della produzione di un determinato autore. Per alcuni autori che hanno una limitata produzione pianistica, è inoltre possibile concentrare l’integrale in un singolo concerto monografico: operazione efficace con vari autori del Novecento, come Goffredo Petrassi, Luigi Dallapiccola, Gyorgy Ligeti, Luciano Berio.
2.1.1. Le “integrali”. Una filiazione dei programmi monografici dedicati ad un singolo autore è costituita dai cicli di esecuzioni “integrali” di tutte le opere pianistiche dello stesso compositore, presentate di solito in più concerti ravvicinati (ma a volte anche a distanza di anni, specie per i progetti più impegnativi, come l’integrale delle opere pianistiche di Beethoven o di Schumann). Di solito, il pianista “integralista” mira soprattutto a mantenere un livello esecutivo minimo accettabile, mettendo in conto possibili rischi d’incidenti o approssimazioni, ma non rinunciando ad una visione spesso unitaria e completa dello stile o della poetica di un determinato autore.
L'uso delle integrali pianistiche è stato senza dubbio incoraggiato dalla diffusione della discografia e si è evoluto ed ampliato parallelamente alle tecniche di registrazione. A tale proposito, sarebbe da distinguere la tendenza a realizzare integrali discografiche dall'uso di proporre integrali nei programmi concertistici, che sono ovviamente quelli che più ci interessano in questa sede. Ma non è facile separare le due cose: tant'è che spesso i programmi concertistici sono condizionati dall'attività discografica dei pianisti, e che a volte le stesse case discografiche impongono loro di proporre in concerti i brani che hanno inciso recentemente, per promuovere le vendite dei cd. La proposta di esecuzioni integrali è inoltre un’efficace strategia commerciale: costringe le società concertistiche a scritturare il pianista (con il rispettivo agente) per più di una serata, garantendo proficue collaborazioni pluriennali e contribuendo a far radicare la fama e la popolarità di quell'interprete in una determinata città.
2.2. Monografie per ambito cronologico. Si tratta di programmi composti da brani scritti in un limitato arco temporale (per esempio, dal 1800 al 1805, o dal 1840 al 1843, o, meglio ancora, un singolo anno: particolarmente proficuo per il pianoforte è stato il 1837!). Ancor meglio se il periodo prescelto coincide con un evento particolare, come la Rivoluzione Francese, la Guerra Franco-Prussiana, il Nazismo. E’ importante, inoltre, che la coscienza interpretativa del pianista approfitti degli accostamenti tra i brani per esaltarne le differenze o per evidenziarne gli elementi comuni, senza peraltro rendere l’approccio interpretativo troppo uniforme.
2.3. Monografie per genere musicale. In questi casi l’interprete deve stare attento a dare un’adeguata compattezza alla sua scelta, per lasciar emergere con chiarezza l’evoluzione del genere prescelto, e soprattutto per evitare che il risultato d’ascolto sia eccessivamente pesante od omogeneo. Hanno dunque un senso storico maggiore i programmi che esplorano l’evoluzione di forme brevi, così da poter presentare un numero ampio di brani dello stesso genere: funziona perfettamente, ad esempio, un programma di soli walzer (Schubert, Chopin, Brahms, Scriabin, Ravel) o di soli notturni (Field, Chopin, Martucci, Fauré, Bizet, Debussy, Ciaikowsky, Scriabin, Rubinstein, etc), a patto di alternare i notturni lenti con altri più movimentati. Più rari, ma altrettanto interessanti, sono i programmi dedicati esclusivamente a generi meno frequentati, come la ballata (per esempio, Chopin, Brahms, Gottshalk, Fauré, Franck, Debussy, Grieg), lo scherzo (Mendelsson, Schubert, Chopin, Martucci, Reger, Sharwenka), la barcarola (Mendelssohn, Chopin, Fauré, Granados, Moskowsky, Rubinstein), l’elegia (Liszt, Busoni, Paderewsky). Ancora più ricercati sono i programmi dedicati a generi decisamente rari, quali, ad esempio, il ditirambo (e qui, a quanto mi risulta, abbiamo solo Tomašek e Medtner). Incoscienti, infine, i programmi composti da sole tarantelle, o da soli bolero, o da simili pezzi troppo caratterizzati: essi corrispondono (come osservò Piero Rattalino) al menù di un pranzo costituito soltanto da canditi o frutta secca!
2.4. Altri tipi di monografie. Sono pressoché infiniti i criteri che possono riunire in un programma monografico i brani più disparati. Spesso accade dunque di ascoltare musiche apparentemente lontane, ma accomunate da determinati parametri armonici, melodici, ritmici, formali, o più esplicitamente legati dall'appartenenza allo stesso stile, o semplicemente dalla vicinanza delle rispettive tonalità. Andando oltre in questa direzione, è ancora possibile accostare musiche in base a comunanze di elementi criptici (come ad esempio, tutti i brani basati sul nome B.A.C.H.), di temi meta-musicali (affinità con correnti pittoriche, filosofiche o letterarie) o extra-musicali (come l'acqua, il fuoco, il viaggio, il vino) o addirittura di elementi enigmistici o numerici, completamente slegati dai contenuti musicali (pezzi con lo stesso numero d'opera, o composti nello stesso luogo, o di autori il cui nome comincia con la stessa lettera: Bach, Beethoven, Brahms, Berio, Britten, oppure Cage, Crumb, Cowell, e...chi più ne ha più ne metta!). Come negli altri casi, non basta evidentemente contare su una singola affinità dei vari brani (specie se questa è slegata dai contenuti squisitamente musicali) per essere sicuri di aver composto un programma organico e convincente.
3. I programmi "comparativi". Una categoria complementare (ma non necessariamente "opposta") a quella dei programmi monografici è costituita da quelli "comparativi": si tratta di programmi di recital (e conseguentemente, più raramente, discografici) costruiti in modo da alternare musiche appartenenti a stili, autori o ambienti poetici lontani, eppure in qualche modo accomunate da determinati elementi. L'intento è evidentemente di stimolare una percezione nuova dei brani proposti, grazie all'ascolto ravvicinato di mondi sonori differenti. È normale, del resto, che anche una figura architettonica o un film appaiano in forme diverse, a seconda della situazione emotiva o fisiologica in cui lo spettatore si trova. Così accade anche per la musica: quasi mai il pubblico si trova in un utopico stato di verginità d'ascolto. Anzi, ogni singolo ascoltatore porta con sé il proprio background e la propria sensibilità, che influiscono notevolmente sui risultati della percezione musicale. Da qui ha origine il successo dei cosiddetti programmi "crossover", in cui, ad esempio, un notturno di Chopin può introdurre l’ascoltatore nell’atmosfera giusta per uno studio di Ligeti, facendolo “suonare” molto più ricco di contenuti emotivi, ed evidenziandone i legami con la produzione pianistica romantica.
Con i programmi comparativi è così possibile proporre brani di difficile ascolto (per esempio di alcuni autori contemporanei), sottolineandone le suggestioni emotive, così da renderli "digeribili" anche per un pubblico di non "addetti ai lavori". Anche per l’interprete, accostamenti di questo tipo sono particolarmente efficaci, poiché la lettura ne trae grande giovamento, risultando fresca ed innovativa ed allontanando il rischio di un’esecuzione di routine.
Conclusioni. Al di là di queste categorizzazioni schematiche, esistono delle semplici regole, dettate principalmente dal buon gusto (e dal buon senso) di chi costruisce un programma di recital, così che esso non risulti sbilanciato, o troppo pesante, o troppo omogeneo per l’ascoltatore. La tonalità di ogni brano influisce sulla percezione dei brani precedenti e successivi; presentare un concerto con tutti i brani nella stessa tonalità rischia di essere una cattiva idea: come una casa arredata soltanto con oggetti blu! Le tonalità esprimono interessanti attrazioni armoniche, per cui questa potenzialità può essere sfruttata per creare una particolare tensione tra i diversi brani in programma.
Il paragone di Rattalino con il menu del ristorante, infine, è utile per rendersi conto dell’equilibrio che un programma deve avere: ad esempio, un concerto con la sonata Hammerklavier di Beethoven e la sonata in si minore di Liszt corrisponde ad un menù con una bistecca “alla Fiorentina” di 400 grammi, seguita da un altro piatto di carne della stessa mole: la conseguenza sarà una difficile e travagliata digestione, specie per il “piatto” servito per secondo!
E’ efficace, al contrario, un programma con un solo pezzo forte (il piatto principale), affiancato da altri brani che ben si sposano ad esso, e che ne esaltino il valore, anche attraverso contrasti di sapore: proprio come un buon “antipasto” ed un contorno appropriato. Ed il dessert? Anche quello va scelto con attenzione: un “bis” può impreziosire a posteriori il programma precedentemente ascoltato, ma, se scelto male, può rendere indigesto tutto il pranzo!
CONCORSISTI O CONCERTISTI?
I concorsi internazionali di esecuzione musicale rappresentano senza dubbio un importante banco di prova per un giovane interprete: si tratta di occasioni fondamentali per misurarsi con il palcoscenico, per farsi ascoltare da una platea vasta e qualificata, e, nei migliori dei casi, per intraprendere una gratificante attività concertistica. È naturale, dunque, che la maggior parte degli studenti di musica considerino la preparazione dei concorsi importanti come il fine principale del loro lavoro. Vale la pena, allora, analizzare l’approccio diffuso dei giovani interpreti verso i concorsi, alla luce delle reali esigenze del mondo concertistico, che non sempre coincidono con le prerogative necessarie alla vittoria di una competizione. Oggi per un musicista non è più sufficiente vincere un primo premio importante per avere la certezza di intraprendere (e tanto più mantenere) una vera, stabile professione concertistica. E a volte di primi premi non ne bastano neanche quattro o cinque: i concorsi possono offrire grosse somme di denaro, numerosi concerti anche in sedi prestigiose, ma la gloria tende ad esaurirsi nel giro di alcuni anni (di solito fino alla proclamazione del vincitore successivo), se il vincitore non ha tutte le carte in regola per affrontare la reale vita concertistica. Quali sono dunque le doti che un musicista in carriera deve possedere? Per rendersene conto, basta osservare quelli che sono gli attuali grandi interpreti. Oltre al talento ed alla cultura (che sono ovviamente i requisiti minimi indispensabili), essi in massima parte possiedono una straordinaria versatilità, ossia sono in grado di eseguire molti programmi di recital in pochi giorni, spesso alternando l’attività solistica a quella cameristica. Le grandi agenzie tendono a lanciare un giovane talento in maniera spesso brutale, programmando un numero elevato di concerti importanti in giorni ravvicinati. A volte basta un minimo cedimento nervoso per compromettere una carriera. Ergo: anche per un’intensa attività concertistica occorrono nervi d’acciaio. Vanno rodati ed allenati regolarmente, e non è detto che la sola esperienza dei concorsi sia sufficiente, anche perché si tratta di un diverso genere di stress. Quasi mai in una competizione è richiesto di imparare un nuovo brano in pochi giorni, o di preparare un concerto o un programma di recital in un periodo molto limitato: situazioni, queste, che spesso capitano ad un concertista, specie ad un giovane a cui si chieda una sostituzione dell’ultima ora. Ma, soprattutto, un vero interprete deve assolutamente possedere una personale coscienza critica, ponendosi in rapporto con la storia dell’interpretazione e della civiltà: l’approccio con la musica è in continua evoluzione, parallelamente con lo sviluppo della società e della cultura contemporanea.
Il repertorio del vero concertista: non solo “pezzi da concorso”
Un’altra caratteristica molto importante per il successo di un concertista è la vastità e l’originalità del repertorio, nonché la creatività nell’impaginare i programmi di recital: difficilmente chi suona esclusivamente le musiche più conosciute e di frequente ascolto riesce a sviluppare una carriera soddisfacente. È inoltre molto stimolante eseguire brani di autori conosciuti solo marginalmente, anche se non geniali come Beethoven o Chopin; oppure proporre, degli stessi compositori più noti, anche i pezzi di ascolto meno frequente (e sono proprio molti, in gran parte vittime di un ingiusto oblio). In tal modo il ruolo dell’interprete assume anche una funzione divulgativa particolarmente utile, contribuendo all’arricchimento culturale della propria società. Per un esecutore è particolarmente gratificante, inoltre, collaborare direttamente con i compositori contemporanei: un modo per integrare il ruolo del concertista nel momento attuale, smentendo il luogo comune secondo cui gli strumentisti “classici” svolgono un mestiere anacronistico. I concorsi, purtroppo, non sempre agevolano affatto simili aperture: anzi, essi di solito prescrivono un repertorio tradizionale, costituito in gran parte da alcuni capisaldi della produzione strumentale. Se da una parte ciò consente di valutare al meglio le qualità esecutive del concorrente, grazie anche al confronto con una vastissima discografia e una lunga tradizione interpretativa, d’altra parte, in tal modo i “concorsisti” si troveranno tutti con un repertorio simile, spesso non molto esteso, ed incentrato su musiche arcinote ed inflazionate, sulla cui interpretazione è ben difficile (nonché rischioso, in sede di concorso!) aggiungere qualche nuovo elemento. L’esigenza di raffinare al massimo la preparazione strumentale spesso li induce a concentrare lo studio su quei pochi “cavalli di battaglia” (a volte si tratta degli stessi pezzi da oltre dieci anni) da sfoggiare nelle competizioni, senza poter ampliare sufficientemente il loro repertorio e, conseguentemente, il loro bagaglio culturale. Certo, è giusto che un giovane interprete affronti le opere più rappresentative per il suo strumento, ma va da sé che cento musicisti (pur bravi e preparati) che suonano gli stessi pezzi non troveranno tutti uno sbocco adeguato nella vita concertistica. I “concorsisti” peraltro spesso rinunciano all’apprendimento di brani di più raro ascolto, per paura che questi vengano considerati con sufficienza, se non con pietosa ilarità, da alcuni giurati. Il candidato che propone qualcosa di “originale” può in effetti dar l’impressione di voler evitare il confronto diretto con i “rivali”, e di voler così camuffare la propria inadeguatezza ad affrontare il repertorio tradizionale. Invece proprio quei brani potrebbero offrire maggiore successo e notorietà ad un giovane musicista: del resto, la fama di alcuni degli attuali interpreti più affermati è proprio legata all’originalità del loro repertorio. Lo stesso Maurizio Pollini ha esordito con la Deutsche Grammophon in un cd dedicato a musiche di Webern, Boulez, Prokofiev e Strawinsky (allora i Trois Mouvements de Petroushka non erano di moda come oggi), ed è stato tra i primi a presentare regolarmente nei suoi recital musiche di Schoenberg, Boulez, Stockhausen e Sciarrino. E, facendo un passo indietro, va ricordato che Walter Gieseking ha legato il suo nome alla divulgazione delle musiche di Ravel e Debussy, ed Arthur Schnabel non sarebbe tanto celebre se non fosse stato il primo ad incidere tutte le sonate di Beethoven ed a presentare in concerto l‘integrale delle sonate di Schubert, quando esse erano del tutto ignote al grande pubblico. Più recentemente, star (pur non ancora celeberrime in Italia) del calibro di Marc André Hamelin e Pierre Laurent Aimard hanno guadagnato il successo grazie alle incisioni di autori come Godowsky, Alkan (Hamelin) e Ligeti (Aimard). E c’è ancora una infinità di composizioni in attesa di una meritata riscoperta, o addirittura di una prima esecuzione!
La ricerca interpretativa
Con quanto detto non si intende certo scoraggiare l’apprendimento del repertorio tradizionale. Anzi, proprio dalla frequentazione di musiche meno conosciute, di territori “vergini” dal punto di vista della tradizione esecutiva, è possibile trarre una nuova freschezza di idee, con benèfici effetti sull’approccio con le composizioni di repertorio. E qui veniamo ad un altro punto saliente: siamo sicuri che i concorsi incoraggino l’approfondimento interpretativo e la ricerca di nuovi aspetti dell’esecuzione? A giudicare dai verdetti di molte recenti competizioni internazionali, pare proprio il contrario. Spesso, come più volte è stato osservato, i candidati dotati di maggior personalità vengono penalizzati poiché destabilizzano l’ascolto: essi richiedono una maggiore concentrazione, un superiore sforzo di adattamento da parte dei giurati, i quali non sempre sono propensi a mettere in discussione le proprie idee, specie quando ascoltano musica per dieci ore al giorno. Invece i concorrenti che propongono esecuzioni più neutre, prive di elementi originali o innovativi, hanno spesso vita facile ed incontrano maggiori consensi durante la competizione, per poi scomparire rapidamente dalla vita concertistica. La consapevolezza di questo meccanismo influenza, purtroppo, anche la preparazione dei “concorsisti”. Quante volte gli insegnanti ammoniscono: “attento a non esagerare, altrimenti ti eliminano”! Insomma, la paura di essere in qualche modo “attaccabili” può determinare nei candidati la costante ricerca di un utopistico equilibrio interpretativo, che nei migliori dei casi comporta esecuzioni neutre e prive di individualità, e nei peggiori è sinonimo di mediocrità e carenza creativa (la quale, peraltro, può paradossalmente rivelarsi un’arma “vincente”).
Le giurie È evidente che la causa prossima di una simile mentalità va ricercata nella composizione delle giurie. Scorrendo i nomi dei giurati dei recenti grandi concorsi pianistici internazionali saltano all’occhio alcune interessanti singolarità: quasi tutti sono pianisti, o ex pianisti, o insegnanti di pianoforte. Salvo poche eccezioni, mancano i direttori d’orchestra, i compositori e comunque altri musicisti non pianisti. Perché? La giustificazione è presto data: se i giurati non conoscono la letteratura dello strumento che ascoltano, non saranno in grado di giudicare adeguatamente. Ma sarà proprio così? Credo di no: anzi, proprio in virtù di una visione astratta e non meccanicistica dell’esecuzione, essi potrebbero avere una percezione più libera da pregiudizi e preconcetti. Del resto, una giuria di soli pianisti in un concorso pianistico può corrispondere ad una giuria di sole “miss” o ex “miss” alle selezioni di miss Italia. Va da sé che il pianista giudicherà un suo collega con un inevitabile, anche se spesso inconscio, confronto con se stesso, con le proprie scelte, con le proprie esperienze esecutive (peggio ancora se il malcapitato concorrente viene visto come un temibile rivale). Così come è probabile che una ex “miss Italia” preferisca la candidata che più le ricorda se stessa da giovane! La presenza di insegnanti, poi, comporta molteplici conflitti di interesse, specie quando sono in gara i loro stessi allievi. E non serve a molto la consueta regola di far astenere il maestro dal votare per il proprio “protetto”: egli potrà sempre agevolarlo con voti di scambio oppure attribuendo punteggi molto bassi ai rivali più pericolosi. Vi sono, inoltre, una decina di nomi (e non si tratta certo di personalità artistiche di spicco!) che compaiono regolarmente in molte delle giurie dei concorsi pianistici più prestigiosi. Guarda caso, si tratta spesso di insegnanti che sono anche presidenti o direttori artistici di qualche concorso. Costoro, invitandosi reciprocamente, determinano una poco salutare uniformità, non solo nella composizione delle giurie, ma anche nella selezione dei premiati: chi ha già vinto un concorso organizzato da uno di loro sarà certamente agevolato nel vincerne un secondo, grazie ad una politica protezionistica basata su favori reciproci, anche a distanza.
Arte e competizione: un binomio accettabile? Con ciò non si vuole scoraggiare i giovani a partecipare ai concorsi, tutt’altro. Ma è importante vivere serenamente simili esperienze, approfittare del confronto reciproco per arricchire le proprie conoscenze, senza lasciarsi condizionare negativamente: già, perché vi sono pericolosi effetti a lungo termine che il sistema di preparazione dei concorsi può generare sui candidati. Il rischio maggiore riguarda proprio la genuinità e la completezza della loro formazione musicale. È preoccupante la tendenza, oggi molto diffusa tra i giovani studenti (e rispettivi insegnanti), a finalizzare lo studio alla vittoria di un concorso, quasi che questo sia l’obbiettivo primario ed il fine ultimo del percorso didattico. Senza dubbio, è positivo che un concorso possa stimolare una maggiore determinazione nella preparazione, ma spesso il verdetto della competizione diventa più importante del risultato artistico, con pericolose conseguenze, sia per i vincitori che per i “perdenti”. La vittoria di un prestigioso premio può, infatti, alimentare la convinzione di essere artisti completi, causando un calo del rendimento e della ricerca interpretativa (caso quanto mai frequente tra i primi premi dei concorsi internazionali). L’abitudine, poi, a studiare in funzione di una competizione può generare una vera e propria dipendenza: quasi che non si possa fare a meno di continue verifiche esterne per vedere confermata (o meno!) la propria adeguatezza all’esecuzione musicale. Molti vincitori non riescono a mantenere lo stesso livello qualitativo nei loro concerti perché manca lo stimolo del confronto con altri concorrenti, o con una “temibile” giuria. L’eliminazione da un concorso può spesso determinare depressione, perdita di sicurezza nei propri mezzi, o per lo meno un naturale, ma non certo benefico, senso di frustrazione. Un concorrente eliminato rischia così di oscurare gli elementi più genuini ed originali della propria personalità artistica, considerando questi come la causa dell’insuccesso.
Affrontare il concorso come fosse un concerto Cosa deve fare, dunque, un aspirante concertista per sopravvivere a tutto ciò, e per trovare una reale soddisfazione professionale ed artistica? Innanzi tutto, aprire gli occhi. I concorsi, è bene ribadirlo, sono molto utili per iniziare la carriera: vincerli è meglio, ma perderli non comporta alcuna preclusione. L’importante è avere una piena consapevolezza della propria missione, del proprio ruolo, e trovare una più alta gratificazione nel piacere stesso del far musica, nell’energia e nella poesia che in essa possiamo scoprire. Specialmente oggi il mondo musicale ha bisogno di interpreti creativi, ricchi di immaginazione, spirito di iniziativa, intraprendenza, curiosità, e soprattutto con l’urgenza di dire qualcosa di autentico, di far partecipi gli ascoltatori di una nuova scoperta, di una “verità” da diffondere con entusiasmo e sincerità. È inoltre importante non rinchiudersi, ma guardarsi intorno e cercare tutte le opportunità per farsi conoscere e apprezzare. E non si tratta solo dei concorsi: anzi, spesso un’incisione discografica riuscita o una buona audizione presso un importante direttore artistico risulta molto più proficua della vittoria di un primo premio. Esistono, poi, molti concorsi “illuminati”, che gradualmente stanno modificando il regolamento (e le giurie) per avvicinarsi alle reali esigenze della vita concertistica. Ma ciò che più conta è che il candidato affronti il concorso con la mentalità del “concertista”: e ciò sarà più facile nel momento in cui egli saprà dire qualcosa di speciale, di unico, che lo renda distinguibile da tutti gli altri.
AGENTI DI SE STESSI
Per molti musicisti emergenti, “avere un agente” può sembrare l’inizio di una fase ideale della carriera, in cui ci si può dedicare esclusivamente alla ricerca artistica, delegando un professionista del settore a tutto ciò che riguarda gli ingaggi, la programmazione dei concerti e tutti gli aspetti più materiali della propria attività. Nella vita reale, però, le cose vanno diversamente. Anche le migliori agenzie, infatti, non possono sostituirsi all’inventiva e alla spinta progettuale che solo l’artista stesso è in grado di fornire alla propria attività. Del resto, è sacrosanto che ogni musicista possa decidere liberamente su come orientare la propria carriera, svincolato da prescrizioni esterne che rischiano di snaturarlo. Com’e ovvio, inoltre, spesso le agenzie tendono a lavorare per musicisti che sono già molto noti e “in carriera”, per i quali è più facile trovare ingaggi, oltretutto con maggiori margini di guadagno. Ciò è assolutamente logico e anche giusto: sarebbe infatti fuori luogo cercare negli agenti professionisti figure simili ad “angeli custodi”, che con totale abnegazione e disinteresse per il business si dedichino alla promozione di giovani artisti ancora non conosciuti.
Quali sono, dunque, le alternative ad una tradizionale agenzia artistica, per i musicisti che intendano svolgere un’attività concertistica professionale? Indubbiamente, una delle priorità è essere ben coscienti della propria identità artistica e dei propri obiettivi. Chi siamo? Perché abbiamo scelto di fare i musicisti? A chi vogliamo rivolgerci come musicisti? Perché un direttore artistico dovrebbe scegliere noi piuttosto che altri? Una sana e severa “autodiagnosi” dei propri mezzi, dei propri punti di forza e dei propri limiti è quindi un buon punto di partenza su cui basare le proprie scelte. Nessun musicista è realmente completo: osservando le carriere di grandi pianisti o violinisti, ad esempio, si nota come spesso essi siano stati capaci di forgiare il loro repertorio e, di conseguenza, la loro immagine, facendo leva sui loro pregi, ed evitando musiche che mettessero troppo in evidenza i punti deboli.
Un altro aspetto di grande importanza riguarda la comunicazione del messaggio che vogliamo esprimere attraverso le nostre esecuzioni. Oggi la comunicazione inizia ben prima della nota iniziale di un concerto: tutti gli aspetti “pubblici” della nostra attività contribuiscono, infatti, ad esprimere un aspetto della nostra personalità. La presenza su internet, non solo attraverso il sito ufficiale, ma anche su Youtube, Spotify e sulle pagine Facebook e degli altri Social Media, può avere una influenza sul pubblico molto maggiore di quanto si pensi, ed è certamente destinata ad aumentare nei prossimi anni. I rapporti con il pubblico (compreso quello che ci segue a nostra insaputa, come spesso capita grazie ai social media) sono indubbiamente importanti per divulgare i messaggi, anche non strettamente musicali, che sono collegati con la nostra attività. Tutto il materiale che un artista produce, dal curriculum alle fotografie, concorre a costruire un’immagine, e spesso questa rischia di non collimare con quella che lo stesso artista vorrebbe esprimere, qualora non vi sia una cura adeguata. Il ruolo di agente è quindi sempre più interconnesso con quello di PR o ufficio stampa.
Tutti questi aspetti rientrano in quello che potremmo definire “self-management”, e raramente un agente tradizionale potrà prendersene cura. Eppure, anche da essi dipende la carriera e l’attività concertistica di un musicista. Del resto, sempre più spesso i direttori artistici e gli organizzatori di eventi musicali ingaggiano musicisti che hanno conosciuto grazie a internet, magari ascoltando per caso una loro interpretazione su Youtube, e il fascino di una scoperta fatta in autonomia è per loro molto più gratificante di una delle tante proposte concertistiche che ogni giorno invadono le loro caselle di posta, e che forse non avranno mai il tempo di leggere con attenzione.
C'E' UN GRANDE ARTISTA DENTRO OGNI STUDENTE
Nella mia esperienza di docente di pianoforte, ho spesso verificato come gli allievi possono radicalmente, e istantaneamente migliorare, in modo anche sorprendente, semplicemente in base a ciò che essi pensano mentre suonano. Nulla di magico, naturalmente; si tratta solo di una delle tante testimonianze di come la nostra mente può inibire o liberare il nostro talento.
Molto spesso, basta chiedere ad un allievo che suona in modo inibito, o comunque tendenzialmente scolastico, di immaginare di essere un grande pianista: ad esempio, di suonare lo stesso pezzo cercando di impersonare Vladimir Horowitz. A volte, per i più refrattari, è più efficace chiedere di fare la caricatura di Horowitz. Bene, quasi sempre ne risulta un'esecuzione non solo più fantasiosa e libera, ma anche più intensa e coerente, rispetto a quella precedente. E quasi mai, a dire il vero, si riscontrano troppe somiglianze con Horowitz (artista peraltro difficilissimo non solo da eguagliare, ma anche da imitare).
Ciò che ho imparato da queste esperienze (che a volte applico anche su me stesso) è che il nostro potenziale artistico e creativo molto spesso rimane nascosto, a causa di meccanismi inibitori che ci portano ad esprimere solo una parte minima delle nostre intenzioni e intuizioni. Perché accade questo? Forse perché tendiamo a focalizzarci più sul controllo dei nostri difetti (dunque enfatizzandoli!) che non sulla musica in sé. E se l'obiettivo è “non fare errori” o “non produrre una brutta sonorità” o “non esagerare con il pedale”, forse otterremo il risultato che ci siamo prefissati, ma che non coincide affatto con la nostra reale, globale intenzione espressiva. Quindi può bastare “distrarre” la nostra mente da questi meccanismi di controllo inibitori, ad esempio forzandola a concentrarsi sull'imitazione di un altro pianista, per lasciare uscire con maggiore naturalezza, e finalmente senza ostacoli, la nostra reale individualità artistica.
Spesso nei miei master class gli allievi non si rendono conto che la loro “imitazione” di un grande pianista dà luogo ad una interpretazione migliore, e continuano a credere che si tratti, invece, di una esecuzione esagerata o caricata. Ma basta registrarli, e fare riascoltare e confrontare le due versioni per porli dinanzi al fatto reale.
Naturalmente, non sostengo che per suonare meglio bisogna sempre pensare di essere qualcun altro. Ma questo esperimento può funzionare come un apripista: è un modo per scoprire nuove potenzialità artistiche rimaste magari ancora sopite. Dopo tutto, i master class servono a questo: a far trovare ad ogni allievo, attraverso il confronto con l'esterno, il grande artista che è già dentro di lui.
COME AFFRONTARE UNA MASTERCLASS
Nei master class di pianoforte gli studenti hanno la possibilità di confrontarsi con un docente diverso dal loro abituale, che in tre o quattro lezioni può dare consigli e illustrare i suoi punti di vista sulle loro interpretazioni. Nella mia "precedente vita" di studente ho frequentato decine di master class, e ho ancora un ricordo vivido di alcune, che mi hanno dato una particolare carica per proseguire gli studi facendomi scoprire modi diversi di intendere la musica e di concepire l’interpretazione. Si tratta, quindi, di un’opportunità molto utile, che però può essere affrontata in tanti modi dagli studenti.
Oggi a volte si tende erroneamente a considerare il master class come una sorta di audizione prolungata. Alcuni studenti si iscrivono non per imparare alcunché, ma per esibire al docente le proprie qualità, quindi più per “far vedere” che non per aprirsi a nuovi modi di intendere la musica. Altri studenti, viceversa, affrontano i master class in modo eccessivamente passivo, accogliendo “a scatola chiusa” i consigli del docente, che magari non sempre sono perfettamente adeguati al loro modo di suonare o di pensare la musica. In base alla mia personale esperienza (di studente prima e di docente poi), credo che il modo migliore di intendere il master class per uno studente sia quello di un libero confronto con punti di vista diversi. Ovviamente, va messo in conto che il docente proporrà delle idee nuove, non sempre facilmente e immediatamente comprensibili e applicabili.
È anche possibile che l’impatto con un modo di concepire la musica e il rapporto con lo strumento tanto diverso possa inizialmente provocare nello studente una sorta di shock, o mettere profondamente in discussione le sue precedenti certezze. Anche questo è un effetto, di solito positivo, del master class: è importante per uno studente diplomato, che si avvia ad intraprendere la strada del concertismo, non dare nulla per scontato, e trovare una propria personale identità artistica anche grazie al confronto e alla presa d’atto che non esiste un modo univoco di intendere la musica e l’interpretazione. E tanto più saranno forti le sue idee personali, quanto più esse saranno convincenti e di successo, anche agli occhi di chi parte da punti di vista diversi.