Molti insegnanti parlano prima di tecnica, poi di musica. Noi riteniamo, invece, che la tecnica e la pratica alla tastiera siano solo un passo conseguente all'idea musicale, che deve essere il primo oggetto di studio e di approfondimento. Prima ancora di mettersi alla tastiera per suionare un brano, dovremmo avere ben chiaro il contesto emotivo e paesaggistico in cui il brano è ambientato, e l'itinerario emotivo che si sviluppa nel corso del brano. In questa serie di testi diamo alcuni spunti per una maggiore consapevolezza sull'espressione musicale, parlando concretamente di gestione della frase, delle tensioni armoniche e melodiche, di "profondità di campo" e "messa a fuoco" dei piani sonori. Naturalmente, è impossibile dare una idea completa di questi concetti senza un esempio pratico, ma crediamo che anche la lettura di questi brevi spunti possa essere uno strumenti di riflessione e presa di coscienza del lavoro interpretativo che ogni pianista e musicista deve svolgere con coscienza e chiarezza di intenti.
DAR FORMA ALLA FRASE
Una caratteristica dei grandi interpreti, siano essi direttori d'orchestra, cantanti o strumentisti, è di avere sempre una concezione chiara e dettagliata della frase musicale, mantenendo uno sguardo globale della composizione che eseguono. E ciò si ripercuote su ogni singola nota, la quale, nella sua unicità, risponde anche ad un equilibrio collettivo, con la giusta proporzione espressiva nei confronti del contesto in cui si trova.
Viceversa, un aspetto tipico delle interpretazioni dilettantistiche (anche dei dilettanti di talento) è proprio quella di indugiare o ricercare l'effetto particolare su ogni singola frase, a costo di perdere la visione globale del brano.
Avere ampi orizzonti visivi durante l'esecuzione è, quindi, un'esigenza primaria per l'efficacia della propria interpretazione, e ciò non è affatto in contrasto con l'importanza di dare una adeguata considerazione espressiva ad ogni singolo dettaglio. Premesso che senza una visione d'insieme a priori ciò che sto per dire rimarrebbe un mero orpello manieristico, proviamo qui ad individuare alcuni parametri esecutivi che mostrano la consapevolezza (o meno) di una visione ad ampio raggio della “mappa” del brano.
Il primo aspetto riguarda le accentuazioni: proprio come nella lingua parlata, i punti in cui appoggiamo la voce determinano la forma plastica della frase, e di conseguenza ne plasmano l'effetto espressivo. La lingua italiana è particolarmente ricca di sfumature in questo senso. Una medesima frase può essere pronunciata dando diversi appoggi a ciascuna sillaba.
Come fare, dunque, a scegliere la forma di una frase? La prima cosa da fare, ovviamente, è di cercare i suggerimenti che lo stesso compositore spesso indica in partitura. Segni come le legature, gli staccati, gli accenti (nelle loro varie tipologie e gradazioni), oltre alle indicazioni dinamiche di crescendo e diminuendo, sono spesso il modo più semplice per il compositore di farci intendere la sua visione della frase. È anche vero, però (è qui è il bello dell'interpretazione musicale) che spesso la stessa frase musicale può essere letta, rispettando le indicazioni in partitura, con diverse forme dinamiche. È quindi utile, nella fase in cui si cerca e si definisce la propria interpretazione, provare a suonare la stessa frase in tanti modi diversi, sempre rispettando le indicazioni, e farsi suggerire dalla musica stessa la soluzione che ci sembra più vicina al nostro sentire. Rimane indubbio che un fraseggio statico e ripetitivo quasi mai è funzionale alla musica, come avviene anche nel parlato: solo uno straniero o un robot parlerebbe italiano senza variare le accentuazioni su ogni parola.
Spesso, inoltre, può accadere che il risultato espressivo non sia il frutto di una nostra scelta, ma derivi dal movimento compiuto dalla mano e da involontari appoggi e accenti che possono derivarne. Un semplice espediente può essere, quindi, quello di cantare con la propria voce la melodia della frase, così da avere un feedback indipendente da eventuali problemi tecnici. Quasi sempre, del resto, noi abbiamo già in coscienza una idea bella e varia dell'espressione, ma rischiamo di perderla di vista se non ne acquisiamo la giusta consapevolezza a priori, ossia prima di suonare quella frase allo strumento.
ASCOLTARE LE ARMONIE
Un elemento fondamentale per la comprensione della drammaturgia di ogni brano musicale è la struttura armonica. La cosiddetta “tensione gravitazionale”, cioè quella generata dalle relazioni armoniche, si deve riflette nella forma dinamica che l’interprete sceglie di imprimere ad ogni frase, così da avere una maggiore forza espressiva. Leon Fleisher sintetizzava questo concetto con il motto “support the composer”: infatti una dinamica adeguata alle tensioni armoniche ne esalta la forza espressiva, mentre una dinamica ad esse contraria rischia di indebolirle, se non addirittura di snaturarle.
Anche questo aspetto trova un parallelo nella lingua parlata: le sillabe accentate sono sempre quelle dove intendiamo mettere maggiore enfasi. Ugualmente in musica, sarà efficace e naturale dare maggiore tensione dinamica alle armonie che reggono la più alta tensione gravitazionale.
La tensione maggiore è di solito sulla dominante, o sugli accordi che preparano la dominante. Quasi sempre, la tensione si rilassa sulla tonica (non a caso, il passaggio dominante-tonica è detto anche “risoluzione”).
Un tipico errore di pronuncia è proprio quello dovuto al non rispettare la naturale relazione tra tensione armonica e tensione dinamica. Dare accenti sulle note su cui avviene una risoluzione armonica è quasi sempre un motivo di appesantimento del fraseggio, che frena il naturale fluire della musica. Non è un caso che quasi sempre i compositori ci indicano di rilasciare la tensione in coincidenza delle risoluzioni armoniche. Ciò avviene mediante le legature: sulla nota in cui termina una legatura, è implicito un alleggerimento dinamico.
Nei casi contrari, in cui un compositore indichi esplicitamente un accento o uno sforzato sulla nota di risoluzione di una cadenza, si tratta in generale di momenti particolari, in cui si intende creare una tensione inattesa o comunque spostata rispetto alle naturali aspettative dell’ascoltatore. Beethoven è maestro in tal senso, ma anche queste eccezioni vanno comprese nell’ottica di una accurata aderenza tra le nostre scelte di fraseggio e la tensione armonica. Altrimenti rischiamo di suonare bene lo strumento, ma restando “al di fuori della musica”.
DIRETTORI DELLA PROPRIA ORCHESTRA
Nel suonare il pianoforte, svolgiamo contemporaneamente un lavoro di analisi e di sintesi: siamo tenuti a gestire tutti i dettagli dell'esecuzione, le singole voci, i singoli timbri, e al contempo dobbiamo sapere creare il giusto impasto tra le varie linee, dare il senso globale della frase, avere una visione completa dello sviluppo della composizione.
Tutto ciò coincide con il lavoro del direttore d'orchestra, il quale, rispetto ai pianisti, deve però rivolgersi ad altri musicisti (gli strumentisti dell'orchestra): nel nostro caso, invece, l'orchestra coincide con il direttore. Dobbiamo “dirigere” noi stessi, come se ogni dito fosse uno strumentista dell'orchestra. È quindi utile pensare di sdoppiarci nel doppio ruolo di “direttore” e di “orchestra pianistica”: altrimenti, rischiamo di essere un'orchestra che suona...senza direttore.
Mi spiego meglio: le intenzioni musicali e i dettagli della nostra interpretazione devono essere estremamente a fuoco nella nostra mente (e nel nostro cuore: parliamo soprattutto di intenzioni emotive), e vanno pensate ben prima del momento in cui le eseguiamo alla tastiera. Se ciò non accade, l'esecuzione potrebbe mancare di chiarezza, o essere troppo generica nelle scelte espressive. Non deve succedere, quindi, che l'orchestra prevalga sul direttore, che le ragioni puramente tecniche o pratiche (un salto difficile, o un vezzo dovuto ad abitudini pregresse) condizionino negativamente l'esecuzione.
Un esempio tipico: prima dell'entrata della voce principale sull'accompagnamento, si tende ad aspettare. Ciò avviene perché il “direttore ideale” che è in noi non ha dato l'attacco con il giusto anticipo: esattamente come accade quando un direttore mediocre non dà l'attacco ad un oboe o ad un clarinetto che ha il tema, e lo strumentista entra in ritardo. È quindi molto importante avere lo sguardo del direttore d'orchestra durante l'esecuzione: “pregustare” ogni entrata di un nuovo tema o di una nuova voce, preparandola con il giusto anticipo mentale, e “dando l'attacco” al relativo dito, ossia immaginando in anticipo il tipo di suono che vogliamo ottenere per quella voce, e il relativo gesto tecnico.
Quando saremo abituati a pensare la musica in questo modo, scopriremo come essa suonerà più spontanea e “vera”, e alcuni passaggi che ci sembravano difficili o musicalmente macchinosi ci appariranno immediatamente più semplici e naturali. Ciò ci porterà a vedere la musica dall'alto, a guardare più avanti, e ad essere maggiormente consapevoli nella conduzione della frase.
FORTEPIANISTI E PIANOFORTISTI
“Fortepianisti” e “pianofortisti”
Cosa è l'autenticità nell'interpretazione pianistica?
Ogni interprete di musica classica – come anche, si presume, ogni ascoltatore – aspira a giungere al cuore del messaggio che un compositore ci ha tramandato attraverso le proprie opere. Tuttavia, la notazione su partitura lascia molti parametri poco definiti, lasciati al gusto, alla cultura, o all'estro momentaneo dell'interprete. La notazione è anche legata alle convenzioni e agli strumenti a tastiera dell'epoca, che nel Settecento (ma anche nell'Ottocento, specie nella prima metà) erano ben diversi dal pianoforte moderno: per timbro, dinamica, diversità dei registri, reattività della meccanica. L'interprete, a sua volta, è inevitabilmente condizionato dal contesto in cui si trova a suonare, dall'acustica della sala, dalla reazione del pubblico, e via dicendo. Ciò vale, a maggior ragione, per la letteratura tastieristica del secondo Settecento: anni in cui si passava gradualmente dal cembalo al fortepiano, e in cui i due strumenti spesso coesistevano. La questione sull'autenticità è, dunque, complessa e di fondamentale importanza per ogni musicista, e richiede studi approfonditi e conoscenza dei documenti e delle fonti originali di cui oggi ancora disponiamo.
A partire dal secondo dopoguerra, è stato svolto un grande lavoro di ricerca sulle convenzioni, le sonorità, le consuetudini espressive diffuse all'epoca di Haydn, Mozart e Beethoven, e, naturalmente sugli strumenti che essi suonavano. Dobbiamo essere molto grati a musicisti come Nikolaus Harnoncourt, Roger Norrington, Franz Brüggen, e, specificatamente per il fortepiano, a Malcolm Bilson, Robert Levin, Andreas Staier per il loro meritorio impegno alla ricerca del significato vero e profondo dell'espressione musicale nel Classicismo viennese (e non solo). Oggi, per ogni interprete che voglia porsi il problema, il punto di partenza della ricerca filologica è molto più facilitato grazie al loro lavoro, anche se ancora non tutti i pianisti si sono resi conto di come la pronuncia di un'articolazione o la forma di una frase possa condizionare la resa musicale (ossia poetica ed emotiva) di una composizione. In altre parole, il rischio di fraintendere il senso musicale di un'opera è dietro l'angolo, quando non si conoscano le convenzioni della notazione e le reazioni degli strumenti dell'epoca.
Anche se oggi tutti i filologi sono concordi su molti aspetti riguardanti la lettura delle articolazioni e la scelta dei tempi, esiste comunque una notevole varietà nei risultati interpretativi che partono da simili premesse “storicamente informate”. Non c'è, quindi, una verità assoluta su come si realizza un determinato abbellimento, su quale sia il tempo esatto di un Allegro o su quale sia lo strumento ideale per una determinata Sonata: confrontando le loro incisioni, è evidente come ognuno adotti un approccio ugualmente coerente con le conoscenze filologiche, eppure diverso e personale. E sono certo che lo stesso Mozart non suonava mai la stessa Sonata allo stesso modo, bensì reagiva con un naturale, creativo adattamento agli stimoli e ai risultati dati dagli strumenti che si trovava di volta in volta sotto le mani. [È pur vero che solo a partire dai primi del Novecento, con l'avvento delle incisioni, è emersa la tendenza a voler lasciare un segno indelebile nella storia della musica da parte degli interpreti.]
Ergo: i veri grandi esperti di prassi filologica, come i nomi citati, sono anche musicisti sensibili e persone di ampia cultura. E non sono mai dogmatici. Vice versa, non basta certo fregiarsi di suonare un fortepiano (magari dopo solo pochi mesi di pratica) per assurgere al ruolo di paladino dell'autenticità, né su può dire che chiunque suoni Haydn o Mozart su uno Steinway moderno sia necessariamente lontano dallo spirito autentico di questi compositori. Capita ancora oggi, purtroppo, di incappare in reazioni troppo “integraliste”, pro o contro la prassi storicamente informata: molti pianisti, spesso privi di alcuna esperienza e conoscenza delle tastiere storiche, sostengono che il pianoforte moderno rappresenti il punto di arrivo dell'evoluzione della tastiera, quasi che gli strumenti precedenti stiano allo Steinway o al Fazioli come l'uomo di Neanderthal sta all'uomo moderno. Personalmente, l'idea che il pianoforte si sia evoluto in senso costantemente migliorativo non mi pare giustificabile. Il pianoforte moderno, specie nei modelli più industrializzati, ha certamente risposto alle nuove esigenze pratiche della produzione industriale e alla necessità di essere ben udibile in sale sempre più grandi, ma ha inevitabilmente perso alcuni colori e una certa sensibilità alle minime sfumature di articolazione che uno strumento artigianale del 1820 poteva invece offrire.
Viceversa, con altrettanta saccenza, qualche paladino degli strumenti storici (magari ex pianista, ormai “pentito”) guarda con disprezzo a priori chiunque suoni Bach o Mozart sullo Steinway o sul Fazioli, dando per scontato che qualsiasi esecuzione sul pianoforte sia certamente inferiore ad un'interpretazione su strumenti d'epoca. Non è detto, invece, che uno strumento storico sia a tutti i costi il più adatto per un brano della stessa epoca. La differenza, anche qualitativa, tra strumenti “coetanei” era allora molto maggiore rispetto ad oggi (ma è ben percepibile anche tra gli strumenti moderni, in base a come vengono accordati e mantenuti), e non tutti i fortepiani attualmente disponibili sono in condizioni adeguate per le esigenze di un concerto o di un'incisione discografica: il restauro di un fortepiano è un lavoro complesso che richiede grande cura e attenzione filologica.
Tutto va, quindi, considerato con buon senso, e in base alle possibilità ed esigenze di ciascuno. Si può certamente suonare su un bellissimo Anton Walter del 1785 in una moderna sala da 2.000 posti, ma siamo sicuri che sia la scelta più appropriata? Cosa percepirà il pubblico, e quanto si perderà nel passaggio dall'interprete all'orecchio dell'ascoltatore? Nel caso delle incisioni, anche la posizione dei microfoni influisce fortemente sul risultato timbrico. La ricchezza dinamica di un fortepiano può essere còlta da microfoni sufficientemente vicini alla cordiera, che però in qualche modo potrebbero snaturare il suono stesso del fortepiano, o almeno catturarlo in modo molto diverso da come esso viene percepito da un ascoltatore seduto a 10 metri di distanza.
Durante la vita di Mozart (e ciò vale ancor più per Haydn, nato prima di lui e morto dopo), l'evoluzione del pianoforte viveva una fase di continui e rapidi aggiornamenti, e certamente ciò influenzò anche la scrittura delle Sonate, come è evidente se confrontiamo le prime Sonate con le ultime. Tuttavia, è vero anche il fenomeno inverso: spesso proprio i compositori, e Mozart in primis, sollecitavano i costruttori ad innovare i loro strumenti (basti pensare al fatto che nel 1785 commissionò ad Anton Walter un pedalpiano), così che questi fossero più adeguati alle loro nuove esigenze espressive. Chissà se negli ultimi anni della sua vita, disponendo di pianoforti più evoluti, Mozart preferisse suonare le sue prime Sonate con i pianoforti sui quali le aveva concepite, o se invece non gradisse maggiormente eseguirle sugli strumenti più recenti... Non lo possiamo sapere, ma credo che sia utile porsi queste domande.
Mi auguro, per concludere, che tutti i pianisti e gli appassionati di musica abbiano modo di avvicinarsi al mondo delle tastiere storiche e possano scoprire la grande ricchezza e varietà espressiva offerta dai pianoforti dal passato. Sarebbe bello che in tutti i Conservatori fosse presto istituito un corso ben strutturato (ma non dogmatico) di prassi esecutiva storicamente informata, come parte integrante del percorso formativo pianistico, e non solo riservato a chi intende specializzarsi in tastiere storiche. Quando studiavo in Conservatorio, io non ho mai avuto alcuna occasione di suonare un cembalo o un fortepiano, e temo che ancora oggi sia così per la gran parte degli studenti. Tuttavia la situazione è oggi certamente molto migliorata da questo punto di vista e lascia ben sperare per il futuro.
Rimangono, però, ancora molti pregiudizi da una parte e dall'altra: “fortepianisti” da un lato, e “pianofortisti” dall'altro a volte si guardano in cagnesco, come se appartenessero a due fazioni avverse. Sarebbe bello, invece, che la curiosità e la voglia di conoscenza e di ricerca vincesse i pregiudizi e i dogmatismi, e che, condividendo conoscenze, esperienze ed entusiasmi, si possa vivere la musica confrontandosi serenamente, con un reciproco arricchimento.
GESTIRE LA DISTANZA
Nel definire l'espressione di un tema al pianoforte, un parametro importante riguarda la distanza: ossia, quanto vicino o lontano vogliamo collocare quel tema rispetto a noi. Intendiamo in tal caso sia la distanza fotografica, sia la distanza emotiva.
Come variare il senso di distanza fotografica da un tema, attraverso l'esecuzione pianistica?
Si tratta di applicare al timbro e al fraseggio musicale la nostra quotidiana esperienza visiva.
Quando guardiamo un albero a pochi centimetri di distanza, ne possiamo scorgere le minime increspature: anche con un minimo di vento, le foglie si muovono, e l'intera figura non è mai del tutto statica. Viceversa, se guardiamo lo stesso albero a un chilometro di distanza, esso ci parrà immobile, anche in presenza di vento.
Tutto ciò è facilmente trasferibile nell'esecuzione musicale. Dunque, per dare l'idea di una frase particolarmente prossima a noi, sarà utile diversificare ogni sua nota, sia dinamicamente, sia con l'agogica, applicando un leggero, impercettibile rubato. Invece, per collocare quella frase in un luogo dello spazio molto distante da noi, sarà efficace un fraseggio più lineare e una minore caratterizzazione dinamica. Si può anche dare un senso di “sfocamento”, usando la parte più morbida del dito, in modo da attenuare i contorni timbrici, come accade quando si guarda un oggetto da molto lontano.
Anche dal punto di vista emotivo (oltre che da quello fotografico), le sensazioni che sono a noi più vicine sono quelle che ci si manifestano con il maggiore coinvolgimento: se un tema esprime una condizione emotiva che ci appartiene, esso sarà influenzato dal nostra compartecipazione, anche nel fraseggio. Al contrario, se lo stesso tema narra una condizione lontana da noi, a cui pensiamo come fosse un sogno, o un ricordo, o un desiderio remoto, sarà più funzionale un fraseggio più semplice.
Naturalmente, a parità di distanza (emotiva o fotografica), possiamo sempre variare la luce con cui vediamo quel tema: un oggetto lontano può essere offuscato, oppure brillare come una stella: la gestione del timbro, dunque, ci sarà di aiuto per caratterizzare l' “esposizione fotografica” di quel tema, in base al tipo di luce con cui vogliamo illuminarla.
Va da sé, naturalmente, che prima di applicare queste tecniche dovremo avere già una idea molto precisa della distanza e della “illuminazione” di ciascun tema in modo funzionale alla struttura drammaturgica della composizione, altrimenti tutto rischia di essere inutilmente fine a se stesso.
L'ORCHESTRA AL PIANOFORTE: GLI ARCHI
Il pianoforte è uno strumento apparentemente limitato nella varietà del suono rispetto ad un'orchestra, eppure consente di evocare molti timbri diversi. Ciò dipende, prima di tutto, dalla chiarezza delle intenzioni del pianista: in altre parole, dalla rappresentazione mentale del suono che si intende evocare. Nulla di più facile, quindi, che immaginare uno strumento dell'orchestra, a partire dagli archi.
Gli strumenti ad arco hanno un'emissione del suono molto diversificabile. Il primo elemento da considerare il movimento dell'arco. Le note suonate con la stessa arcata risultano come parte di un unico flusso, poiché il peso del braccio del violinista si trasferisce, tramite l'arco, da una nota all'altra, lasciando percepire la tensione musicale tra le note. Ciò è facilmente ottenibile anche al pianoforte: qui l'arcata può corrispondere al movimento del braccio del pianista, a condizione che si suoni utilizzando come leva l'intero braccio, e non solo il movimento delle singole dita o del polso. Bisogna usare (almeno parzialmente) il peso naturale del braccio, dosandolo su ciascuna nota e trasferendolo da una nota all'altra. Per dare l'idea di una intera frase suonata sotto una sola arcata, è possibile, al pianoforte, effettuare un singolo, progressivo movimento del braccio, spalmandone il peso su più note, ed eventualmente gestendo la forma dinamica (crescendo o diminuendo o una combinazione dei due) attraverso il graduale rilascio o sospensione del peso. Se si suona scaricando il peso del braccio sul tasto, è sufficiente alzare il gomito per sottrarre una parte del peso dal tasto, e in tal modo si otterrà un naturale, graduale diminuendo sulle note successive che vengono suonate all'interno dello stesso movimento del braccio (“arcata”). Viceversa, se durante l' “arcata” abbassiamo il gomito, il peso del braccio sarà gradualmente maggiore, dando l'effetto di un naturale e progressivo crescendo.
Negli strumenti ad arco, l'arcata può essere in su o in giù. Anche al pianoforte è possibile decidere se suonare una nota (o un gruppo di note) “in su” o “in giù”, con approcci e gesti corrispondenti all'arsi e alla tesi. L'attacco “in su” (arsi) può essere realizzato alzando il braccio o l'avambraccio durante l'abbassamento del tasto. In tal modo si determina una sottrazione del peso, che produce una sorta di decelerazione nel movimento del martello. Il risultato è un attacco più morbido, aereo, perfetto per un suono che esca dal silenzio, o che, seguito da una pausa, ne prepari il silenzio.
L'attacco “in giù” è dato, come avviene con l'arco, da un progressivo movimento verso il basso dell'avambraccio o dell'intero braccio, durante l'abbassamento del tasto. Ciò produce un suono netto, in quanto l'abbassamento del braccio determina una accelerazione del martello sulla corda. Questo tipo di attacco determina un'espressione affermativa, perentoria.
Altri parametri per evocare il suono degli archi sono legati alla consistenza tattile dei crini dell'arco. In generale l'attacco dei crini è abbastanza morbido, specie se si considera un insieme di archi, come una fila dell'orchestra. Per evocare questa morbidezza timbrica è possibile toccare il tasto con la parte più carnosa del polpastrello, tenendo le giunture delle falangi rilassate, a creare un effetto di elastica sofficità. Viceversa, il tipico timbro dei “pizzicati” degli archi può essere riprodotto al pianoforte con un attacco leggero e staccatissimo, con le dita che a loro volta “pizzicano” i tasti, rilasciandoli un istante dopo averli abbassati, e con la massima leggerezza e rapidità.
L'ORCHESTRA AL PIANOFORTE: I FIATI
Proseguiamo la serie di esempi su come si possano evocare timbri diversi al pianoforte, focalizzandoci ora sugli strumenti a fiato. Ogni pianista, naturalmente, ha un proprio modo di gestire il suono alla tastiera, e le seguenti osservazioni non vanno lette come “regole”, bensì come alcuni dei tanti modi di sviluppare una paletta timbrica dettagliata e personale. Va da sé che ogni pianista, anche se ancora ai primi anni di studio, può scoprire da sé nuovi modi di attacco del tasto: del resto lo studio è anche ricerca di tecniche e modi espressivi diversi, e quanto si apprende per esperienza diretta rimane nel proprio bagaglio culturale in modo più radicato e naturale.
I legni
L'oboe. Caratteristiche dell'oboe sono l'emissione con un attacco netto e un timbro chiaro, con una pronuncia distinta di ciascuna nota. Al pianoforte, queste caratteristiche sono evocabili tenendo il dito teso, e toccando il tasto con la punta del dito, in modo perpendicolare al tasto. Può essere efficace toccare il tasto anche con l'unghia del dito, essendo questa la parte più dura, che trasferisce al meglio il senso di nettezza dato dalla doppia ancia.
Il fagotto. Anch'esso a doppia ancia come l'oboe, si differenzia da questo per un suono più nasale, sempre ottenibile usando il dito teso come per l'oboe. Trattandosi qui di un registro più grave, può essere utile un tocco ancora più nitido e incisivo, per compensare la maggiore pesantezza dei martelli.
Il clarinetto. Strumento ad ancia singola, presenta un suono più scuro e morbido. Si può evocare tenendo sempre le dita tese, ma toccando il tasto non con la punta, bensì con il polpastrello, e giocando con la flessibilità delle giunture per ottenere quella tipica sinuosità timbrica.
Il flauto. Ha un suono più “soffiato”, meno concreto del clarinetto, specie nel registro più grave. Per evocarlo occorre un tocco morbido e un attacco molto lento del tasto, con leve molto flessibili, evitando il movimento delle dita, e suonando con l'intera mano che morbidamente abbassa i tasti.
Gli ottoni
Il corno. Ha un timbro caldo e pastoso. Il dito che più si presta ad evocarlo alla tastiera è certamente il pollice, in virtù della sua maggiore superficie di contatto con la tastiera. È consigliabile di suonare usando la leva dell'intero braccio, senza articolare il singolo dito, per mantenere la tensione e la lunghezza di suono tipica dell'emissione del corno. Per ottenere la morbidezza dell'attacco è altresì importante abbassare il tasto lentamente e con tutto il peso del braccio. Numerosi gli esempi espliciti di imitazione del corno nella letteratura pianistica. Uno dei più celebri è l'inizio della Sonata Op. 81a di Beethoven.
La tromba. Il timbro squillante e aperto della tromba si può riprodurre con un attacco diretto e rapido, senza alcuna flessibilità delle articolazioni della mano. Il colore chiaro è ottenibile con un assetto basso del polso. È preferibile usare la punta del dito per dare al suono una adeguata brillantezza.
Il trombone. Si differenzia dalla tromba per un colore più scuro, evocabile al pianoforte con l'uso della parte più morbida del polpastrello, invece della punta. La maggiore morbidezza è ottenibile con una leggera flessibilità delle articolazioni della mano e del polso, pur mantenendo un attacco che usi la leva dell'intero braccio con il relativo appoggio. Tenendo il polso alto sarà più facile evocare il suo colore ambrato.
Il basso tuba. È caratterizzato da un timbro nasale e un'emissione costante con un attacco netto e una emissione costante. Questa caratteristiche richiedono l'uso dell'intero braccio, senza flettere le articolazioni, e mantenendo un assetto alto del polso, toccando il tasto con una ampia superficie del dito.
ASCOLTARE IL TEMPO
Il rapporto con il tempo è un elemento fondante di ogni interpretazione musicale. Il “tempo della musica, però, è ben diverso dal tempo che scandisce i ritmi quotidiani, in quanto si estende in un ambito chiuso, delimitato dalla durata della singola composizione: è un tempo al contempo interno ed esterno a noi stessi, ossia soggettivo ed oggettivo insieme.
La percezione del tempo da parte dell'ascoltatore è a sua volta soggettiva, e influenzata da tanti elementi, legati sia all'interprete, sia a fattori contingenti (riverbero della sala, distanza dalla fonte sonora, grado di ansia dell'ascoltatore, stabilità ritmica dell'esecuzione).
Una delle principali caratteristiche dei grandi interpreti (siano essi musicisti, attori, o danzatori od oratori) è quella di non avere mai un rapporto passivo, subordinato con il tempo. O, meglio, di non considerare il tempo come un'entità esterna a cui adeguarsi, ma, al contrario, come qualcosa che loro stessi possono plasmare, dandole la forma giusta in base alle esigenze espressive e drammaturgiche che la musica richiede, e al continuo feedback con il luogo in cui avviene la performance.
E, a ben vedere, alcuni grandi capolavori musicali, come, ad esempio, le ultime Sonate o gli ultimi Quartetti di Schubert, quando interpretate da artisti ispirati e carismatici hanno la capacità di farci “uscire dal tempo terreno”, portandoci in nuove dimensioni percettive, che rispondono ad altre leggi temporali.
Per dirla in altre parole, i grandi interpreti non “vanno a tempo”, ma “creano il tempo”. Del resto, l'ascoltatore percepisce la vertigine della velocità o l'incanto sospeso di un Adagio non soltanto a seconda della rapidità reale del tactus metronomico, bensì soprattutto in base all'energia motoria e alla tensione musicale comunicata dall'interprete. Questa non dipende solo dalla rapidità, dalla sapiente gestione dell'agogica e della dinamica, che sfrutta impercettibili cambi di tempo e di sfumature dinamiche in modo funzionale alla drammaturgia del brano.
Non basterebbe un lungo saggio per dissertare sulle infinite possibilità di gestire il tempo in musica, e non è questa la sede per tentare una più articolata analisi sull'argomento. Questo breve pensiero vuole, piuttosto, essere un incoraggiamento verso gli ascoltatori e gli interpreti a lasciarsi stupire e guidare dalla percezione soggettiva del tempo musicale, ad “ascoltarlo” nelle sue peculiarità.
Troppo spesso, ancora oggi, vi sono insegnanti di musica che insistono sull' “andare a tempo”, sul “rispettare il tempo”, come se il tempo fosse soltanto quello scandito dall'asticella del metronomo o dalle lancette dell'orologio, al di fuori della musica e di noi stessi. Invece sono certo che le più appaganti e intense esperienze musicali possano avvenire quando si recuperi un rapporto naturale, organico, con il tempo, ascoltando interiormente il proprio “tempo soggettivo”, e lasciando che questo sia plasmato dall'intensità della grande musica.