La maggior parte del tempo che un musicista trascorre allo strumento è dedicata allo studio. C'è chi crede, erroneamente, che la quantità dello studio sia direttamente proporzionale al risultato: alcuni pensano che sia necessario studiare 6 o 8 ore al giorno per raggiungere un dominio completo del pianoforte, e si sentono quasi obbligati a farlo, magari forzando i ritmi della propria mente e del proprio corpo. Nulla di più sbagliato.
Ciò che, invece, conta nella fase dello studio al pianoforte è proprio la qualità della nostra attenzione. Nello studio è fondamentale mantenere sempre alta la concentrazione e la messa a fuoco delle nostre idee musicali, per sviluppare e "automatizzare” una chiara organizzazione del pensiero e dello sguardo, per prendere coscienza di tutti i dettagli che sottendono ad una buona performance pianistica.
Uno studio efficace non può fare a meno, quindi, di un progetto musicale e interpretativo preciso a priori: un punto di partenza che può poi venire testato e modificato durante lo studio, ma che deve essere molto chiaro a noi stessi prima di iniziare. È utile pianificare il tempo di studio dividendolo in sezioni brevi, ciascuna dedicata ad un particolare aspetto. È altrettanto importante una continua “autodiagnosi” durante lo studio, per verificare che il nostro lavoro porti da subito a dei precisi progressi, altrimenti è necessario “correggere il tiro” prima possibile.
Vice versa, per molti studenti di pianoforte lo studio consiste nel ripetere pedissequamente un passaggio, magari lasciando lavorare le dita senza una continua attenzione dell'orecchio e della mente. Questo non è certo un modo efficace di studiare: si rischia di non notare eventuali errori e imprecisioni, e si finisce per abituarsi ad essi. Nell'apprendere un nuovo brano, è fondamentale “insegnare” al nostro corpo e alla nostra mente ad assumere gli automatismi “giusti” sin dall'inizio: per questo, durante lo studio, e in particolare quando si inizia la lettura di un nuovo pezzo, bisogna fare una particolare attenzione al respiro (che non sia viziato o forzato), al rilassamento dei muscoli, alla totale consapevolezza delle leve che stiamo utilizzando, per far sì che il modo più efficace di suonare ogni passaggio diventi sin da subito qualcosa di naturale, innato nella nostra esecuzione.
COSA VUOL DIRE STUDIARE?
Per la maggior parte dei musicisti, lo studio dello strumento è l’attività che occupa il maggior tempo della loro vita (dopo il dormire). È proprio durante lo studio che ognuno determina il proprio avvenire: un concerto o un esame di successo sono, infatti, nient’altro che la naturale conseguenza di uno studio ben condotto. Viceversa, una prova deludente, o un incidente durante una performance pubblica, sono quasi sempre causati da uno studio carente o approssimativo.
Naturalmente, lo studio è un’attività molto privata e personale, ed è giusto che ogni musicista ne gestisca le modalità in base alle sue abitudini e propensioni. Tuttavia, è fondamentale possedere una consapevolezza di ciò che facciamo durante lo studio, ossia sapere chiaramente quali sono i nostri obiettivi, rendersi conto dei progressi compiuti e di ciò che ancora dobbiamo migliorare. Per questo è fondamentale mantenere una costante concentrazione su ciò che facciamo durante lo studio, e sui risultati che ne derivano.
La parola latina studium ha tre significati che sono particolarmente pertinenti anche allo studio di uno strumento musicale.
1. Cura, attenzione diligente e sollecita. Evidentemente, anche nello studio allo strumento è fondamentale un approccio basato sulla “cura”, ossia sul prendersi cura di ogni dettaglio, sia della partitura, sia del nostro modo di suonare. Da qui deriva, quindi, una sensibilizzazione del nostro ascolto, inteso in un duplice senso: - ascolto del nostro corpo, ossia presa di coscienza dei muscoli, delle parti del braccio e della mano e degli assetti che usiamo per eseguire un determinato passaggio;
- ascolto del risultato sonoro della nostra esecuzione, per un confronto continuo tra le nostre intenzioni musicali.
2. Aspirazione, desiderio. Anche questo è un elemento indispensabile: solo uno studio mosso dalla passione e dal nostro desiderio di avvicinarci alla musica possono giustificare le centinaia, migliaia di ore che ogni anno dedichiamo allo studio di uno strumento. Eppure spesso si sentono studenti che studiano senza entusiasmo, solo per dovere, a volte anche controvoglia. Questo è da evitare: se lo studio non è entusiasta e motivato, rischia di danneggiarci e allontanarci dalla musica.
3. Naturale inclinazione verso una particolare attività. Anche questo è un fattore importante: sono certo che tutti coloro che dedicano molto tempo alla pratica di uno strumento musicale lo facciano perché sentono un moto interiore che li spinge a suonare. È bene, quindi, essere coscienti di questo, sentire la nostra “naturale inclinazione” e assecondarla: così lo studio acquisirà un valore più alto e sarà più piacevole, intenso ed efficace.
In italiano, la parola “studio” ha molteplici significati. Il dizionario Treccani ne riporta, tra i tanti, due che mi sembrano particolarmente importanti per quanto riguarda il nostro studio:
1. Applicazione volta all’apprendimento di quanto è stato sperimentato da altri in un ramo dello scibile, in un’arte, in un’attività pratica, allo scopo di fare proprie tali esperienze, ed eventualmente superarle, proponendo soluzioni nuove nel campo teorico o pratico. La sperimentazione, quindi, deve essere una parte integrante dello studio. Una volta acquisite le capacità per far propria l’esecuzione di una partitura, è importante spingersi oltre quanto già ottenuto da altri, con prove e confronti alternativi, anche sbagliando e testando i nostri limiti tecnici.
2. Nelle arti figurative, disegno eseguito come ricerca di tecniche e forme compositive, o come preparazione (soprattutto di particolari) di opere definitive. Anche questa accezione di studio è applicabile perfettamente alla pratica strumentale: prima di definire un’interpretazione, è utilissimo lavorare con dei “bozzetti”, sperimentando versioni diverse dello stesso brani, per poterci rendere conto delle nostre possibilità e per poi scegliere la versione che più corrisponde al nostro sentire. Solo dal confronto di varie opzioni è possibile ottenere un risultato che superi quanto già sappiamo fare. Lo studio, quindi, può, deve anche essere un’esperienza stimolante, avvincente, che ci conduce a continue nuove conquiste.
OGNI DITO AL SUO POSTO
Nel suonare il pianoforte è molto importante essere sempre consapevoli di dove e come le nostre dita si muovono. Sembrerebbe un'ovvietà, ma non lo è: spesso capita, anche ai professionisti, che il lavoro dell'esecutore diventi quello di un “domatore di dita”, quasi a dover contrastare una loro tendenza a muoversi ed agire indipendentemente dalla nostra volontà.
In concerto o in situazioni di particolare tensione (esami, audizioni, registrazioni), in effetti, il sistema nervoso funziona diversamente, e potrebbe facilmente entrare in campo un regime di “emergenza”, in cui riaffiorino abitudini o tensioni muscolari che normalmente non appaiono nello studio domestico.
Per prevenire questo e per mantenere un controllo adeguato e sereno del nostro sistema muscolare e mentale durante l'esecuzione musicale, è fondamentale la preparazione nello studio quotidiano.
Ciò che facciamo nelle ore che ogni giorno dedichiamo alla pratica dello strumento determinerà il nostro rendimento. La fortuna e le circostanze imprevedibili hanno certamente un ruolo nella riuscita di un concerto, ma la loro influenza può essere più o meno controllata proprio in base alla stabilità e alla sicurezza che abbiamo guadagnato grazie allo studio preparatorio.
Durante i miei corsi ho appurato che gran parte degli studenti non hanno un metodo di studio, né si pongono il problema di come studiare. Lo studio viene spesso sostituito da una mera ripetizione di un brano da capo a fondo, magari senza individuare i problemi, e, quindi, senza risolverli. Oppure, al contrario, si riduce in una metodica ma sterile ripetizione di passaggi tecnici a velocità ridotte, con o senza l'uso del metronomo, o attraverso varianti ritmiche o di accentuazione.
Tutte queste prassi non sono né giuste né sbagliate a priori: possono anche far parte delle fasi preparatorie di un concerto, ma da sole certamente non bastano a garantirci un controllo e una consapevolezza sufficiente per gestire al meglio l'esecuzione musicale dal vivo.
Cosa fare, dunque, quando si studia un brano? Ciò che io suggerisco è di fare sempre attenzione sin dall'inizio dell'apprendimento di un nuovo brano, a dove “mettiamo le dita”, e a verificare il risultato sonoro con un continuo feedback di ascolto. Mi spiego: è fondamentale visualizzare mentalmente, qualche istante prima di suonare, la posizione della mano sulla tastiera, e prefigurarsi il suono (la qualità del suono: dinamica, attacco, articolazione) anticipatamente. In tal modo, ogni suono sarà adeguatamente “voluto” e preparato con la giusta attenzione. Viceversa, può accadere di arrivare troppo tardi, impreparati, all'emissione di un suono, ed è in questi casi che aumenta il rischio di errore: e per errore non si intende solo una nota sbagliata, ma anche un suono che non corrisponda a quello che noi vorremmo. Facendo un passo indietro, è quindi fondamentale che ogni suono sia già perfettamente messo a fuoco nella mente dell'interprete, sia nelle sue caratteristiche musicali, sia nelle modalità fisiche per ottenerlo. Qui entrano in campo la posizione della mano, l'assetto del braccio, la parte del dito e il tipo di leva che useremo (l'ultima falange, l'intero dito, l'intera mano, l'avambraccio o il braccio) e il movimento dell'intero sistema braccio-mano-dita, a disegnare un gesto tecnico che corrisponda alle nostre intenzioni musicali.
Non è possibile spingersi oltre in particolari tecnici in questa sede, senza l'aiuto di una dimostrazione pratica, ma possiamo analizzare solo un ultimo dettaglio. Partiamo da un assioma incontrovertibile: ogni nota sbagliata è dovuta al fatto che il dito non si trova sul tasto giusto al momento di suonarla. Anche questa pare una ovvietà, ma tuttavia la maggior parte delle note errate potrebbe essere evitata se solo facessimo in modo che ogni dito sia esattamente dove noi vogliamo. Ossia, per tornare al discorso iniziale, non lasciamo che le dita si posizionino sui tasti in modo casuale, e non controllato da noi. Quando osservo giovani studenti suonare, spesso posso facilmente prevedere le note che sbaglieranno ancor prima che essi le suonino: semplicemente perché vedo che hanno le mani in un assetto che non consentirà di abbassare il tasto nei tempi e nei modi necessari. In questo senso, suonare il pianoforte richiede un'attenzione simile a quella di uno sciatore di slalom, o di un pilota di formula uno: in entrambi i casi, è necessario, come dicevamo, prevedere con congruo anticipo ogni spostamento di assetto, ogni cambio di direzione, ed essere con la mente sempre avanti rispetto al luogo che stiamo percorrendo. Il tipico errore dello slalomista è di arrivare in ritardo a una curva, non avendo spostato l'assetto del bacino in tempo per la curva seguente. Bene, questa è una perfetta metafora per ciò che accade quando suoniamo il pianoforte, in passaggi rapidi o con doppie note, in cui è fondamentale una particolare attenzione all'ascolto del corpo: dove stiamo mettendo il peso, che tipo di leva stiamo usando, quanto tempo abbiamo per portare le dita sulla loro prossima posizione.
Si potrà obiettare: ma la musica deve preservare anche l'aspetto della spontaneità e dell'estemporaneità, non possiamo ricondurre un'esecuzione al totale controllo muscolare e delle posizioni sulla tastiera. Sono pienamente d'accordo anch'io: nel concerto dal vivo dobbiamo avere l'agio necessario per abbandonarci alla musica, senza pensare a tutti gli aspetti legati al controllo; e proprio per giungere a questo risultato è importante che nello studio quotidiano, viceversa, la nostra mente e il nostro corpo imparino a gestire al meglio tutti i parametri dell'esecuzione, così che assumano i necessari automatismo per consentirci un'interpretazione intensa, coinvolgente, entusiasta.
LASCIARE CHE LE NOTE SUONINO DA SE
A proposito dello studio quotidiano del musicista, nel precedente articolo ho parlato dell'acquisizione del controllo completo di ciò che facciamo mentalmente e fisicamente durante l'esecuzione. Questa può essere la prima fase della preparazione di un'esecuzione. Una volta raggiunto un sufficiente automatismo in questo senso, anche nello studio possiamo iniziare a “lasciarci andare”, senza però abbandonare un continuo ascolto dei risultati della nostra esecuzione. Per “lasciarci andare” intendo un approccio vigile, ma allo stesso tempo non invasivo, rispetto all'esecuzione fisica del brano. Possiamo lasciare che le nostre mani, senza alcuna forzatura, suonino seguendo esattamente la musica che ci scorre dentro: quasi che stessero rispondendo non alla nostra volontà, ma alla musica stessa, e che noi fossimo contemporaneamente interpreti ed ascoltatori di tutto ciò.
È utile, per raggiungere questo approccio, pensare alla musica come qualcosa che accade a prescindere dalle nostre azioni: noi non dobbiamo fare altro che “lasciarla uscire” dallo strumento, e le nostre dita e la nostra mente non devono opporre alcuna resistenza. Le tipiche resistenze che potremmo involontariamente esercitare riguardano inconsapevoli tensioni muscolari alle spalle, all'addome, ma anche nelle dita dei piedi e nella mandibola: molti muscoli spesso si contraggono, specie quando siamo emotivamente tesi, fuori dal nostro controllo. Se anche nello studio stiamo attenti a mantenere un continuo e consapevole stato di rilassatezza muscolare, riusciremo a “memorizzare” questo stato e più facilmente potremo riproporlo anche in una situazione di maggiore stress.
Un altro tipo di resistenza riguarda anche i nostri pensieri: se durante un concerto pensiamo, ad esempio, che potremmo sbagliare quel passaggio che stiamo per suonare, ciò certamente non aiuta un'esecuzione rilassata e naturale. Lo scorrere dei pensieri, come anche la gestione dello sguardo e l'attenzione verso uno specifico dettaglio musicale sono tutti elementi che possono essere controllati e ordinati, in modo da renderli più funzionali alla riuscita di un'esecuzione, riducendo i rischi di incidenti e aumentando la nostra tranquillità e consapevolezza sul palco. Viceversa, può essere utile abituarci, anche nella fase di studio avanzata (ossia quando abbiamo acquisito tutti gli automatismi necessari), a provare un'esecuzione pensando a tutt'altro: vagare con le mente, e, addirittura, tenerla occupata in altre attività esterne alla musica che stiamo eseguendo (come, ad esempio, ruotare il collo o respirare profondamente) può paradossalmente rendere l'esecuzione più libera e spontanea, in quanto disattiva delle potenziali interferenze della nostra mente con gli automatismi che abbiamo acquisito nella precedente fase di studio.
Qualcuno potrà obiettare: ma in tal modo non si perde la concentrazione? Mentre suoniamo un brano, non dovremmo concentrarci sulla musica, anziché divagare su altri pensieri? La risposta è “ni”: la nostra mente è ben più complessa e capace di quanto si possa pensare, e, come avviene nei sistemi operativi dei moderni computer, più attività e più pensieri avvengono contemporaneamente, molti dei quali in “background”: e spesso, quando abbiamo acquisito tutti i necessari automatismi, se l'esecuzione musicale è “emessa” in background, ci verrà più facile avvicinarla ulteriormente al nostro più profondo sentire artistico.
PROGRAMMARE LO SGUARDO
La gestione dello sguardo è uno degli automatismi mentali che si possono curare e affinare durante lo studio quotidiano. Una delle principali cause di errori durante l'esecuzione, infatti, è legata proprio alla mancanza di uno sguardo consapevole e ben “programmato”: vice versa, difficilmente sbaglieremo una nota se prima di suonarla guarderemo la zona della tastiera in cui andremo a suonarla. Ciò vale per il pianoforte, ma il concetto può essere applicato, con i dovuti adattamenti, anche agli strumenti ad arco.
I passaggi pianistici più ostici sono, infatti, quelli in cui entrambe le mani sono impegnate contemporaneamente in salti o in figurazioni che richiedono spostamenti ampi, in cui è utile agevolare la mano a posizionarsi al meglio sui tasti, con l'aiuto dello sguardo. Nei casi (peraltro non frequenti) in cui non ci è possibile coprire con il campo visivo entrambe le zone della tastiera, può essere utile usare la memoria fotografica. Guardando qualche istante prima una zona della tastiera, infatti, e scattando idealmente una fotografia di quella zona, potremo “salvarla” nella nostra memoria per qualche secondo, e ci sarà di grande aiuto per il passaggio successivo che suoneremo in quella zona, quando non saremo in grado di guardarvi in tempo reale.
Un esercizio per sviluppare questa tecnica consiste nel guardare una zona della tastiera in cui dobbiamo suonare un passaggio ostico (ad esempio, con un ampio salto), poi chiudere gli occhi e suonare quel passaggio ad occhi chiusi: una volta acquisita questa tecnica, riusciremo a visualizzare la tastiera nella nostra mente, richiamando alla memoria la “fotografia” che abbiamo “scattato” qualche istante prima.
Programmare lo sguardo significa anche scegliere di non guardare la tastiera quando non necessario: spesso proprio alzando lo sguardo dalla tastiera ci consente di ampliare il nostro orizzonte visivo, e ciò può influire positivamente sul respiro della frase musicale. Anche ciudere gli occhi, specialmente in alcuni momenti di particolare introspezione, o al termine di frasi sfumate, può aiutarci a trovare la giusta concentrazione sul suono. Del resto, si suona e si ascolta anche con gli occhi.
MUSICA E SCIOGLILINGUA: FORMA E SUDDIVISIONE DELLE FRASI
Nello studio di un brano pianistico un aspetto importante riguarda la forma da dare a ciascuna frase, in modo da rendere l’esecuzione il più possibile fedele al discorso musicale indicato dal compositore. La definizione della forma comprende anche la scelta dei punti di appoggio del discorso, ossia delle note che hanno il picco dinamico o sulle quali si indugia all’interno della frase. I punti di appoggio spesso determinano anche la scelta della diteggiatura e del movimento da far compiere al braccio e alla mano, che deve essere al contempo ergonomico, ossia comodo e naturale nel gesto, e aderente alla forma musicale che vogliamo imprimere alla frase. Una scelta adeguata di questi parametri consentirà un’esecuzione convincente ed espressiva, evitando problemi di accenti involontari o, peggio, rischi di note sbagliate e sbandamenti nella gestione del tempo.
Il criterio da adottare è analogo a quello per risolvere uno scioglilingua. Un esempio: proviamo a dire “Tre tigri contro tre tigri”. Se pronunciamo questa frase tutta di un fiato, probabilmente incespicheremo in qualche errore (ad esempio, “Tre TRigri”), in quanto il nostro cervello non ha il tempo di distinguere le differenze di pronuncia di ciascuna sillaba, e involontariamente sovrappone gli ordini di esecuzione, inserendo la R anche sulla seconda sillaba. La strategia per ben pronunciare lo scioglilingua è di suddividere mentalmente la frase in più semifrasi, separate da brevi respiri, e ciascuna con una sua chiara forma dinamica e agogica. “Tre ttiiigri” (prima sillaba in levare, con crescendo e appoggio sulla seconda sillaba) – “contro tre tiiigri” (appoggio anche qui sulla seconda sillaba, ma in diminuendo).
La stessa strategia di suddivisione e raggruppamento di piccoli gruppi di note può dare ottimi risultati anche nello studio (mentale, ancor prima che alla tastiera) di un passaggio particolarmente ostico, con ottimi risultati sia in termini di risoluzione tecnica, sia in termini di espressività musicale. È importante che la suddivisione non comporti alcuna frammentazione della frase lunga, ma, al contrario, serva a creare una adeguata differenziazione degli accenti, per un fraseggio ancor più organico e naturale.
LA MAPPA E IL NAVIGATORE
Una buona parte degli errori durante l’esecuzione di un brano al pianoforte sono dovuti ad un errore del nostro “navigatore”. Nelle gare di rally, il pilota è sempre affiancato da un navigatore, ossia da un assistente che legge la mappa del percorso, predicendogli con il giusto anticipo gli le curve successive. Allo stesso modo, nella performance al pianoforte il pianista deve essere al contempo anche “navigatore” di se stesso. Ossia, deve saper prevedere gli spostamenti di posizione della mano e i cambi di tempo e di assetto, in modo da non lasciarsi sorprendere, neanche in passaggi particolarmente rapidi. La maggior parte degli incidenti nei rally è, in effetti, causata proprio da un errore del navigatore, che ha dato al pilota un’informazione errata, o in ritardo rispetto al tracciato percorso. Allo stesso modo, buona parte degli errori (note sbagliate, ma anche accenti involontari e perdita di controllo) durante un’esecuzione al pianoforte sono dovuti alla mancanza di un bravo “navigatore” che ci assista.
Per questo, durante lo studio è fondamentale crearsi una mappa chiara del brano che suoniamo, nella quale siano definiti i punti critici, e che possa “scorrere” nella nostra mente con il dovuto anticipo rispetto alla nostra esecuzione alla tastiera. Lo studio è, quindi, anche un lavoro di programmazione mentale degli spostamenti dello sguardo e dell’assetto del braccio e della mano. Uno studio sano consiste anche nell’automatizzare il rapporto tra mente e dita, facendo in modo che la mente “legga” sempre con congruo anticipo la mappa del “navigatore”, e impartisca gli ordini alle dita con la dovuta chiarezza e definizione.
LA MEMORIA DELLE EMOZIONI
A proposito della memorizzazione di un brano musicale, è importante considerare che esistono vari tipi di memoria, riconducibili a due categorie: la memoria razionale e la memoria emotiva.
La neuroscienza ha appurato che si tratta di due procedimenti neurali indipendenti, gestiti da due diverse aree del cervello: la memoria razionale all’ippocampo, quella emotiva all’amigdala.
Nell’apprendimento di una nuova composizione, è pertanto fondamentale basarsi anche su una mappa emotiva che regoli lo sviluppo musicale. La musica, del resto, è anche una successione ordinata di stati d’animo, e ogni interpretazione non può fare a meno di prevedere, più o meno coscientemente, quali siano gli stati d’animo che si avvicendano nell’arco dello sviluppo narrativo del brano.
La creazione consapevole di una nostra mappa emotiva per ciascuna composizione che studiamo è uno strumento utile per l’approfondimento interpretativo, e, di conseguenza, anche per una più radicata e solida memorizzazione: non si tratta, in questo caso, di memorizzare ciascuna nota o ciascun movimento della mano, ma di andare all’origine primaria della musica stessa. Dobbiamo mettere a fuoco, esattamente come farebbe un attore, tutti gli stati d’animo che attraversiamo nell’arco del brano. Altrettanto importante è definire le modalità con cui si passa da uno stato d’animo all’altro, spesso corrispondenti a determinate modulazioni o sviluppi tematici. Una consapevolezza della struttura tematica e armonica è, quindi, indispensabile per una corretta definizione della mappa emotiva di ciascun brano.
Solo così avremo risolto a monte il problema della memorizzazione, e riusciremo ad avere una visione completa e organica del brano. A partire dalla mappa emotiva potremo mettere a fuoco i successivi dettagli, e arricchire la definizione combinando la memoria emotiva con quella razionale.
Va infine ricordato che gli eventi legati a nostre particolari emozioni sono quelli che non ci dimenticheremo mai. Anche nell’apprendimento musicale, quindi, più legheremo ciascun tema ad un preciso significato emotivo, da noi condiviso, più saremo certi che quel tema lo suoneremo in maniera vissuta e intensa. A quel punto, il problema della memoria viene superato a piè pari, perché abbiamo spostato molto più in alto il livello del nostro lavoro interpretativo.
ELOGIO DELL'ERRORE
Per tutti i musicisti, è inevitabile confrontarsi di continuo con la paura degli errori: una nota sbagliata o mal intonata, oppure un intoppo nel procedere dell'esecuzione. Per la maggior parte degli studenti di musica, l'errore è un fatto puramente negativo, a cui si guarda con timore, e che si cerca di evitare ed esorcizzare in tutti i modi. A mio parere, invece, ogni errore è un evento “fortunato”, in quanto può rappresentare un'importante occasione di crescita. Mi spiego meglio: nella pratica dello studio quotidiano sono proprio gli errori che ci consentono di prendere atto dei dettagli ancora da perfezionare. È proprio quella nota sbagliata che ci fa notare che non abbiamo dedicato sufficiente attenzione a quel determinato passaggio, o che non abbiamo ancora ben focalizzato la temperie espressiva di quel tema. A ben vedere, infatti, gli errori capitano quasi sempre sui dettagli a cui non diamo la giusta importanza. Difficilmente, viceversa, capita di sbagliare una nota o una frase che vogliamo eseguire con particolare intensità e naturalezza.
Come nota il pianista Stephen Hough in un suo recente blog sul Telegraph, la causa prossima di un errore al pianoforte è legata al fatto che il dito non si trova sul tasto giusto al momento giusto. Può sembrare un'ovvietà, ma non lo è: molti pianisti durante lo studio non fanno particolare attenzione alla posizione delle dita sui tasti, e a come programmare i cambi di posizione in modo da far sì che ogni dito sia già sul tasto giusto prima di suonare quel tasto. Se lo studio viene impostato anche sotto questo aspetto, ossia programmando e “ingegnerizzando” i movimenti e gli sguardi, così da guidare le dita sui tasti con la migliore economia di movimenti e con totale consapevolezza muscolare, una buona parte del lavoro è già compiuto. E più si è coscienti dei propri movimenti e delle tensioni musicali che ad essi sono legate, più si diventa sereni nell'esecuzione, così da dedicarsi agli aspetti puramente musicali senza le spiacevole e frustrante “paura di sbagliare”.
E, comunque sia, val bene ricordare che un errore in sé passa anche inosservato se è in un contesto di grande intensità musicale. Viceversa, un 'interpretazione fredda e calcolata, finalizzata solo ad evitare gli errori, risulterà molto più “sbagliata” di una interpretazione spontanea, profonda e non impeccabile. Dopo tutto, in musica l'impeccabilità non esiste, e, come disse Murray Perahia a proposito del pianismo di Alfred Cortot, “le sue note sbagliate erano molto più giuste delle mie note giuste”.
L'ATTENZIONE SELETTIVA
Lo studio serve anche ad acquisire il totale controllo dei nostri movimenti in relazione al risultato sonoro desiderato: è, dunque, fondamentale focalizzarsi sull’attenzione che rivolgiamo ai vari aspetti dell’esecuzione. Il nostro cervello, infatti, deve gestire nello stesso istante numerose linee melodiche, diverse curve dinamiche, e i movimenti di varie parti della mano e del braccio, nell’ambito di un progetto musicale che ha una precisa forma in un determinato arco di tempo. Come fare, dunque, a controllare tutti questi parametri senza tralasciarne alcuno, con una totale aderenza alle nostre intenzioni e mantenendo la naturalezza dell’espressione? Sembra paradossale, ma ciò è possibile solo se impariamo a gestire la nostra attenzione in modo selettivo: ossia, scegliendo a quale linea musicale o a quale aspetto dare priorità, e lasciando che gli altri parametri siano controllati “in background”, senza, quindi, impegnare la nostra attenzione in modo eccessivo. La metafora del millepiedi impazzito che non riesce più a camminare quando pensa al controllo di ciascuna zampa, è particolarmente calzante.
Il funzionamento dell’attenzione selettiva è ben spiegato dall’esperimento del “gorilla invisibile”, oggetto di due popolari video disponibili su Youtube e sul sito www.theinvisiblegorilla.com. Nel primo video sono mostrati alcuni ragazzi che palleggiano con un pallone da basket, e si chiede allo spettatore di contare quante volte una palla viene passata da un giocatore all’altro. Il nostro cervello tenderà, quindi, a focalizzarsi sul conteggio dei passaggi, e in tal modo non avvertirà che durante il video (della durata di circa un minuto) passa un gorilla nero, che sarebbe oltremodo evidente all’occhio di chi guardasse il video senza contare i passaggi del pallone. Nel secondo video si chiede ancora di contare i passaggi del pallone, e lo stesso spettatore che non ha visto il gorilla starà ora attento a scorgerlo, ma, focalizzandosi sul gorilla, non sarà in grado di notare il cambiamento di colore dello sfondo, né l’uscita di scena di uno dei giocatori.
Per lo stesso principio è utile, nel suonare un brano al pianoforte, abituare la nostra mente, sin dalle prime fasi di studio, a concentrarsi sui diversi singoli aspetti che richiedono la nostra attenzione. Ad esempio, prima sulla linea del basso, poi sulla melodia superiore, poi sui rapporti tra le varie armonie, poi sul dettaglio dell’articolazione di ogni singola voce. Solo quando avremo ben definito e quindi automatizzato l’esecuzione dei vari dettagli, potremo lasciare che molti di questi vengano realizzati “in background”, e sapremo “guardare dall’alto” alla nostra esecuzione, dando priorità alle linee lunghe o, meglio ancora, alla visione della struttura completa del brano. Quando si è giunti ad un dominio completo, più si “alza lo sguardo”, più si guadagna in fluidità di fraseggio, senza perdere la precisione dei dettagli, a patto che questi siano stati ben metabolizzati nelle precedenti fasi di studio.
È altrettanto utile fare la controprova: se siamo abituati a suonare un brano pensando solo alla melodia, proviamo a suonarlo pensando soprattutto al basso, o alle successioni armoniche: noteremo che la nostra esecuzione cambia, e può essere utile fare vari test di “spostamento dell’attenzione”, per verificare che tutti i parametri siano perfettamente sotto il nostro controllo.
Solo un controllo completo e agevole, infatti, ci consente, durante l’esecuzione dal vivo, di abbandonarci all’estro momentaneo, potendo gestire l’interpretazione con il dovuto agio e la necessaria naturalezza.
DIGITAL DETOX
Lo studio di uno strumento musicale richiede concentrazione e disciplina per poter sfruttare al meglio il tempo che dedichiamo alla pratica giornaliera.
I risultati dello studio non dipendono tanto dalla quantità di tempo che vi dedichiamo, ma dalla qualità e dalla precisione del lavoro che compiamo allo strumento. Oggi molti studenti rischiano di disperdere il loro tempo di studio a causa delle continue distrazioni a cui sono sottoposti: smartphone, computer, messaggi e stimoli da radio, televisioni e altre interferenze sonore sono tutti nemici del nostro studio. Due ore di studio interrotte frequentemente dalla lettura di post Facebook, email e messaggi Whatsapp sono meno efficaci di dieci minuti in totale concentrazione.
È quindi molto importante, anche se potrà sembrare difficile, ritagliarsi almeno un’ora al giorno di studio nelle migliori condizioni possibili: isolati da rumori esterni, e soprattutto disconnessi da internet e da altre fonti di distrazione. Solo così ci si potrà rendere conto di come il nostro rendimento aumenta, quando riusciamo a focalizzare l’attenzione e l’ascolto sulla nostra performance allo strumento.
Il fenomeno della dipendenza da smartphone e social media è già molto diffuso, al punto da essere stato già riconosciuto come una patologia da curare: lo studio in un ambiente internet-free può essere un efficace rimedio per un salutare “digital detox”, come oggi viene chiamato, e per prevenire forme patologiche di dipendenza. Tutto ciò non può che far bene allo studio della musica, e più un generale alla nostra salute.
LA CURA DELL'ERRORE: DIAGNOSI , PROGNOSI E TERAPIA
Nello studio quotidiano al pianoforte è “fisiologico” sbagliare. Ani, potremmo dire che lo studio consiste proprio nella individuazione e nel superamento degli errori, attraverso un processo di “diagnosi”, “prognosi” e “terapia”. La differenza tra uno studio efficace e uno superficiale sta nella reazione che abbiamo dopo avere sbagliato. Uno studente distratto e poco avveduto tenderà a ignorare l’errore, e a proseguire meccanicamente il suo studio, come se non avesse sbagliato: magari studierà otto ore al giorno, ripetendo lo stesso errore molte volte, e quindi involontariamente quell’errore verrà sedimentato e diventerà parte integrante permanente della sua esecuzione. Viceversa, uno studente più concentrato e attivo prenderà subito coscienza di avere commesso un errore, e, anziché proseguire lo studio a prescindere da esso, si fermerà e indagherà le cause per cui ha sbagliato, individuando la soluzione all’errore e quindi “estirpandolo” dalle sue abitudini esecutive.
La prima cosa da fare quando si commette un errore (sia che si tratti di una nota falsa, sia che si tratti di un accento involontario o di una perdita di controllo del ritmo), è avere il coraggio di ammetterlo e di localizzarlo con precisione. Se durante lo studio non siamo neanche in grado di renderci conto di quale nota precisamente abbiamo sbagliato, sarà difficile risolvere il problema.
Una volta circoscritto l’errore e presa coscienza di tutti i dettagli, è necessario capirne le cause: perché abbiamo sbagliato proprio quella nota, e non un’altra? Non è mai una coincidenza: ogni errore è una spia di un problema che dobbiamo risolvere.
Per indagare le cause degli errori, è utile fare una lista di quelle più frequenti:
1. non abbiamo pensato in anticipo a quella nota 2. la mano non si è spostata con il dovuto anticipo 3. la diteggiatura è poco ergonomica. 4. l'assetto (spesso legato alla diteggiatura) è poco funzionale a quel passaggio. 5. alcuni muscoli sono involontariamente tesi 6. la concezione mentale di quel passaggio non ci è chiara e causa confusione 7. siamo stati distratti da un elemento esterno
È molto probabile che la causa del nostro errore sia una o più tra le sette cause qui elencate. Sarà sufficiente, quindi, individuarla, e trovare l’adeguata soluzione, modificando le nostre abitudini esecutive: il modo di pensare la frase, o i movimenti necessari per eseguirla, o la diteggiatura, o l’assetto, o la gestione dei muscoli o il raggruppamento delle note nel nostro pensiero musicale.
Una volta che ci siamo resi conto di quale sia la causa dell’errore, sarà necessario uno studio “terapeutico” per creare i giusti automatismi che ci portino a suonare sempre il passaggio nel modo corretto, dunque estirpando le cattive abitudini che erano causa dell’errore.
ENTRARE NEI PANNI DI UN GRANDE PIANISTA
Nella mia esperienza di docente di pianoforte, ho spesso verificato come gli allievi possono radicalmente, e istantaneamente migliorare, in modo anche sorprendente, semplicemente in base a ciò che essi pensano mentre suonano. Nulla di magico, naturalmente; si tratta solo di una delle tante testimonianze di come la nostra mente può inibire o liberare il nostro talento.
Molto spesso, basta chiedere ad un allievo che suona in modo inibito, o comunque tendenzialmente scolastico, di immaginare di essere un grande pianista: ad esempio, di suonare lo stesso pezzo cercando di impersonare Vladimir Horowitz. A volte, per i più refrattari, è più efficace chiedere di fare la caricatura di Horowitz. Bene, quasi sempre ne risulta un'esecuzione non solo più fantasiosa e libera, ma anche più intensa e coerente, rispetto a quella precedente. E quasi mai, a dire il vero, si riscontrano troppe somiglianze con Horowitz (artista peraltro difficilissimo non solo da eguagliare, ma anche da imitare).
Ciò che ho imparato da queste esperienze (che a volte applico anche su me stesso) è che il nostro potenziale artistico e creativo molto spesso rimane nascosto, a causa di meccanismi inibitori che ci portano ad esprimere solo una parte minima delle nostre intenzioni e intuizioni. Perché accade questo? Forse perché tendiamo a focalizzarci più sul controllo dei nostri difetti (dunque enfatizzandoli!) che non sulla musica in sé. E se l'obiettivo è “non fare errori” o “non produrre una brutta sonorità” o “non esagerare con il pedale”, forse otterremo il risultato che ci siamo prefissati, ma che non coincide affatto con la nostra reale, globale intenzione espressiva. Quindi può bastare “distrarre” la nostra mente da questi meccanismi di controllo inibitori, ad esempio forzandola a concentrarsi sull'imitazione di un altro pianista, per lasciare uscire con maggiore naturalezza, e finalmente senza ostacoli, la nostra reale individualità artistica.
Spesso nei miei master class gli allievi non si rendono conto che la loro “imitazione” di un grande pianista dà luogo ad una interpretazione migliore, e continuano a credere che si tratti, invece, di una esecuzione esagerata o caricata. Ma basta registrarli, e fare riascoltare e confrontare le due versioni per porli dinanzi al fatto reale.
Naturalmente, non sostengo che per suonare meglio bisogna sempre pensare di essere qualcun altro. Ma questo esperimento può funzionare come un apripista: è un modo per scoprire nuove potenzialità artistiche rimaste magari ancora sopite. Dopo tutto, i master class servono a questo: a far trovare ad ogni allievo, attraverso il confronto con l'esterno, il grande artista che è già dentro di lui.